Vecchie case rurali, identità storica e patrimonio da tutelare
Non si tratta di semplici abitazioni del passato povero di questa terra, ma di opere costruite con intelligenza e pragmatismo che oggi si avvicinano alla bioedilizia
Da molti anni il Parlamento europeo invita gli Stati membri a predisporre giornate di studio o manifestazioni tematiche su argomenti che caratterizzano le comunità delle nazioni aderenti. Il fine di tutto ciò è la salvaguardia dei valori o dei beni della cultura materiale nelle sue numerosissime realtà geografiche. L’argomento scelto quest’anno è “Il patrimonio culturale in Italia e non solo… Diversità e ricchezze da custodire e tramandare”. E tra queste ricchezze da custodire e tramandare un posto di diritto spetterebbe alle vecchie case rurali, sempre più in via d’estinzione. Un patrimonio che lentamente va affievolendosi insieme alla storia che rappresentano. Eppure costituirono un elemento caratterizzante dell’economia, della cultura e del paesaggio veneto e per questo un bene da tutelare al pari delle corti padronali che invece sono di fatto già tutelate.
Va detto innanzitutto che le normative regionali vigenti in materia edilizia ed urbanistica non vanno nella direzione della tutela di questi immobili, e ne promuoverebbero addirittura l’abbandono o la demolizione per riproporne solamente le volumetrie negli stessi luoghi, e così facendo il destino di questi edifici sembra segnato. A ciò aggiungasi il fatto che con la loro tipologia estremamente povera e legata ad un’economia scomparsa, quella appunto agricola che nasce tra la fine dell’Ottocento e il primo Dopoguerra, questi edifici vengono in genere oggi associati all’indigenza anziché ad una cultura ricca di antichi saperi. Lo scrittore Luigi Meneghello, autore di quel “Libera nos a Malo” capolavoro della letteratura e giustamente celebrato anche per essere uno dei primi libri dedicati alla civiltà contadina, sosteneva che i veneti hanno un grosso debito nei confronti del proprio passato, “un passato – sosteneva – che puzza di verza”, di povertà, e dunque non idoneo a rappresentare la moderna immagine del Veneto locomotiva del Nord Est. E le vecchie case della ruralità contadina paiono appartenere proprio a questo orizzonte.
La casa, del resto, è uno status symbol e per questo rappresenta chi l’abita ed è così che con il benessere si è deciso di dire addio alle stanzette due metri per due, al solaio basso in travi e assi di legno, alle finestre volutamente tenute piccole, per lasciare fuori una volta il caldo e una freddo, per più ampi openspace in cemento, alle vetrate lunghe una parete, ai tetti con sei-sette spioventi, alla montagnola rialzata con le palme davanti all’uscio e all’immancabile taverna con quella sua aria sinistra di cripta domestica. Nessuno, solo 70-80 anni fa, si sarebbe arrischiato di andare nel sottosuolo del Polesine o delle Basse per ricavare due camere, a meno che non volesse destinarle ad acquario. Ecco perché il tema della casa è il tema dell’identità e la casa stessa è la cartina di tornasole di quanto poco assomigliamo a quello che ci sta attorno. Indubbiamente ci siamo allontanati dal paesaggio, non solo offendendolo con costruzioni aberranti che meriterebbero di essere bombardate, ma perdendo quella “razionalità” che i poveri e ignoranti uomini del passato avevano imparato ad usare in ogni circostanza. Stiamo parlando di “regole” dettate dalla natura di un territorio alle quali nessuno più ci fa caso, ma che un tempo erano state assimilate attraverso quell’essenzialità propria delle società rurali, dove la parsimonia veniva estesa dall’economia domestica anche al numero delle finestre, senza però rinunciare alla bellezza. Certe facciate, seppur modeste, presentano una scansione di vuoti e pieni degni della “sezione aurea”, del suprematismo di Kazimir Malevič o del neoplasticismo di Piet Mondrian.
Fateci caso, non c’è nulla che si inserisca meglio di queste vecchie e ormai sgangherate case nello skyline del paesaggio. Se c’è una foto da fare al panorama si cercano quei comignoli smussati che sembrano delicate testoline incastonate tra le spalle nude di “opere” piegate al sole. Chi insegnò la grazia a quegli uomini che cuocevano da se i mattoni, recuperando d’inverno l’argilla dai letti dei fiumi? Probabilmente nessuno, probabilmente non era una questione bellezza ma di un’estetica scaturita dalla necessità di fornire la migliore risposta alle sollecitazioni che provenivano dall’ambiente. Come per gli igloo, la forma è sostanza. Ecco perché questa estetica andrebbe preservata, dietro ad essa si nasconde la funzionalità, perché come scrisse Manuela Zorzi nel suo fondamentale Abitare in Polesine. Caratteristiche architettoniche ed urbanistiche dei sistemi insediativi nella provincia rodigina [Ater, Rovigo, 2000] “In questa varietà di distribuzione e di funzioni, la casa bracciantile ha finito per rappresentare non tanto una semplice “componente” dell’ambiente rurale polesano, sia pure fortemente caratterizzante, ma ne è divenuta la principale protagonista”. Perdendo queste abitazioni, perdiamo l’indicazione plastica di come l’uomo del passato si adattò al suo territorio.