La “piantata padana”, agricoltura razionale di un paesaggio che non c’è più
Un tempo non esistevano i vigneti come li intendiamo noi adesso. La vite, invece, faceva parte di un sistema promiscuo, dove l’uva non era l’unico “frutto” atteso dal contadino
La grande “Carta del Gorzon” custodita al Museo Etnografico di Stanghella è un documento storico di eccezionale importanza: nonostante i suoi quattrocento anni di età, rappresenta in maniera precisa ed efficace l’idrografia e l’uso del suolo del tempo. Un suolo che dove non era occupato dall’acqua, come nel caso dell’enorme lago di Vighizzolo e della sua cassa di espansione, era destinato in gran parte alla viticultura. La superficie destinata al “vignà” infatti risulta preponderante, coprendo quasi il 30% dell’intero territorio allora disponibile. Molto, quasi quattro volte la terra destinata alle colture cerealicole, presenti in ragione dell’8%, e moltissimo se si considera che oggi, nella stessa area presa in considerazione dalla carta, la superficie destinata alla viticoltura rappresenta solo lo 0,81%. Stante così le cose, verrebbe da chiedersi se la Bassa Padovana non fosse un tempo l’equivalente della Valpolicella o del Chianti moderni. Una ipotesi, tuttavia, senz’altro da escludere. Una presenza così cospicua della vigna, invece, va forse considerata in quello che era il modo di mettere a regime un fondo. Le colture specializzate al tempo erano molto rare, soprattutto nel caso della viticoltura.
Insomma non esistevano i vigneti come li intendiamo noi adesso, ma la vite faceva parte di un sistema promiscuo dove l’uva non era l’unico “frutto” atteso dal contadino. Questo sistema è passato alla storia con il nome di “piantata padana” e nella fattispecie si concretizzava con la collocazione ai bordi del campo destinato alla cerealicoltura di alberi e viti, ossia di viti “maritate” ad un sostegno vivo, in genere all’olmo, all’acero campestre, al salice, al pioppo, ai gelsi o non più raramente a qualche albero da frutto, come nel caso del ciliegio o del pero. I vantaggi che tale sistema comportava erano molteplici, visto che contemporaneamente venivano sviluppate diverse colture: certamente l’uva, ma anche i frutti degli alberi reggi-vigna e le foglie, che spesso venivano raccolte ancora verdi per essere destinate all’alimentazione invernale degli animali della stalla o ai bachi da seta, nel caso del gelso. Inoltre, visto il clima delle zone padane, non è certamente il più adatto alla produzione vitivinicola, le viti mantenute in alto dagli alberi permettevano ai grappoli la massima insolazione, per favorire la maturazione, ed il minimo di umidità in modo da impedire i pericoli delle mu e. Non va tralasciato poi che sotto ai lari si stendevano spazi erbosi (strene, rivali) utili per lo sgrondo delle acque piovane verso fossati e scoline e utili pure per ottenere una modesta produzione foraggera da destinare agli animali. Importantissima, inoltre, la produzione di legname con la quale l’agricoltore poteva gestire al meglio le caratteristiche del terreno e diversi care gli introiti dalle proprie colture. Alberi dolci come il salice o il pioppo avevano funzione di asciugare il terreno, il pregiato noce, già tempo tra gli alberi da reddito, forniva legname per realizzare mobili e arredi, mentre con alberi forti e da cima come la farnia venivano prodotte travi i legname da opera. Ancora la legna serviva per i bisogni energetici della famiglia contadina e spesso entrava anche in quei prodotti di pregio che venivano richiesti per il pagamento del livello, ossia il sistema più diffuso di affido dei fondi, visto che la proprietà era tutta in mano a pochi e ricchissimi possidenti. Il campo arativo-arborato e vitato, dunque, era un modello organizzativo di un sistema agrario a coltura promiscua ma intensiva, capace di esprimere il massimo di efficienza dal punto di vista energetico e delle rese. L’investimento del proprietario urbano, per dotare il podere di abitazioni per la famiglia contadina e per gli animali da lavoro, veniva abbondantemente ripagato con il forte incremento di valore del campo arborato e vitato rispetto alle altre forme di uso del suolo.
Un sistema che di certo accompagnò e diede ordine a quelle operazioni di “deforestizzazione”, che rappresentarono le prime boni che del territorio, avviate verso la ne del XIII e del XIV secolo, in parte ricollocando ai bordi dei seminativi quegli alberi che erano stati estirpati. Un sistema che proprio per la sua “razionalità” nella gestione delle risorse accompagnerà anche la successiva stagione di bonifica del territorio, ossia quella veneziana avviata con il retratto delle acque. “Fili d’arbore – scriveva alla metà Seicento il Tanara – o piante che sostentano le viti: con questi non s’occupa o impedisce parte alcuna di terreno che non si possi lavorare e cavarne frutto; anzi dallo stesso lavorare che per altrui si fa, la vite ne viene coltivata senza spesa, e quasi perpetui (gli alberi) mantengono e sostentano la vite, e col mezzo di questi le allunghi e dilati tanto, che rende più un lo di questi arbori, o due nella piantata bene aiutata che non fa una vigna, porgono ancora dilettazione alla vista e servono di comodità di separare un campo dall’altro…”. Fu un sistema talmente efficiente da rimanere in uso fino all’epoca recente. Qualcuno fece appello alla malattia dell’olmo per trovare le cause della scomparsa della “piantata”, in realtà è stato l’inserimento delle macchine agricole il vero motivo. La necessità di lavorare la campagna con macchine sempre più grosse e potenti portò a eliminare gli intralci costituiti dagli alberi, mentre il ricorso ai mangimi artificiali rese inutili le produzioni di foglie ed erbe che fino a quel momento erano state fondamentali per l’allevamento degli animali. Con l’arrivo dei trattori dunque il nostro paesaggio conobbe una radicale trasformazione, sparì un sistema che aveva retto per secoli, arrivarono i tutori “morti” e l’espandersi della coltivazione del vigneto specializzato. Qua e là è ancora possibile imbattersi in qualche esempio di “piantata padana”, a nostro avviso andrebbe tutelata come fosse un’opera d’arte, per essere un monumento a quell’intelligenza contadina che sapeva colmare la carenza con sistemi razionali improntati al multitasking.