Spunti per il recupero di una memoria, nati sotto a una piantata padana. Quando la tradizione diventa innovazione
Un piccolo convegno organizzato dall’associazione G.R.A.S.P.O. ha messo a confronto personalità del mondo culturale, scientifico e delle istituzioni sul tema: “quando il passato può tornare di attualità?”
La “memoria” è fondamentale. Importante. A differenza del ricordo non rappresenta solo un’immagine di qualcosa che è stato, ma ne fissa nell’umanità l’idea, generando cultura, conoscenza e alimentando riflessione anche su quello che potrà essere il futuro. Alla memoria di solito vengono eretti monumenti, ma a volte i monumenti sono viventi, come nel caso della piantata padana di Vernazola che Gianmarco Guarise custodisce ad Urbana, preservando i cento anni di storia delle sue vigne e custodendo un tempo che la campagna di oggi ha dimenticato. Un oblio al quale anche l’Associazione G.R.A.S.P.O. si oppone, con un impegno che è riassunto nell’acronimo che ne definisce l’appellativo e al tempo stesso la ragione sociale – Gruppo di Ricerca Ampelografica Sostenibile per la Preservazione della biodiversità viticola – ricercando e studiando antichi vitigni, analizzandone il Dna e vinificandoli per valutarne i punti di forza, i punti di debolezza, i possibili impieghi anche nella viticultura di domani. Non ultimo, l’impegno dell’Associazione si spinge anche all’organizzazione di simposi e convegni, invitando a parteciparvi uomini di cultura, di spettacolo, agricoltori, ricercatori, storici, vigneron, società civile, come nell’incontro che alla fine di agosto si è tenuto proprio sotto ai tralci dalla piantata di Guarise ad Urbana, e che ha avuto come scopo l’impegno di una riflessione, appunto sulla memoria, perché il tema è vasto e riguarda tutti. E all’appello di G.R.A.S.P.O. hanno risposto Viviana Ferrario, docente e ricercatrice dello IUAV di Venezia, il naturalista Antonio Mazzetti, l’attore Dario Carturan e Augusto Fabbris il quale, proprio come Guarise, ha assunto l’incarico di custodire la memoria di un pezzetto di campagna trevigiana, nel comune di Baver.
La biodiversità della vite è un patrimonio di inestimabile valore che rischia di andare perduto per sempre, se nessuno si prende la briga di recuperarlo
Sotto alla piantata di Urbana, dunque, sono nate riflessioni tutt’altro che nostalgiche di un passato arcadico e bucolico dal sapore amarcord. La materia è viva! Certo perché la biodiversità della vite è un patrimonio di inestimabile valore che rischia di andare perduto per sempre, se nessuno si prende la briga di recuperarlo, ma soprattutto perché nel passato ci sono valori che possono andar bene per il futuro: ossia il domani reso incerto dagli andamenti climatici ed economici che tutti abbiamo davanti agli occhi. “Non ci interessa studiare queste varietà sul piano teorico a scopo documentaristico – ha spiegato Aldo Lorenzoni che un paio d’anni fa, insieme a Luigino Bertolazzi, ha dato vita all’esperienza G.R.A.S.P.O. – il nostro è un lavoro concreto che speriamo possa essere utile ai viticoltori. Riteniamo che in questi spazi dimenticati, in queste varietà in disuso ci siano degli autoctoni straordinari, dal grande potenziale, vitigni che meritano di essere allevati e vinificati ancora affinché diventino un valore aggiunto per i vini del territorio”.
“Un territorio – ha replicato Antonio Mazzetti – che anch’esso andrebbe conosciuto e preservato per mantenerne la fertilità, ma ancora prima l’identità. ‘I nomi della terra’ – riferendosi al titolo del libro a cui ha dedicato 10 anni della sua vita raccogliendo, dalla voce dei contadini, i toponimi dei Colli Euganei – non sono solo i nomi di luoghi, ossia un modo di chiamare le cose, sono le cose stesse. La loro pronuncia, il loro suono, sono una forma di scrittura rimasta “orale” che ha la forza di restituirne le forme, la consistenza, la materia stessa di cui sono fatti.
La terra agricola è un blocco unico, contiene humus e i detriti dei fiumi che l’hanno prodotta, ma anche la storia e le vicende che l’anno resa coltivabile, soprattutto qui dove la bonifica ci ricorda lo stretto rapporto con l’acqua, con quell’acqua che è la madre di tutte le civiltà e che noi solo in questa estate siccitosa ci siamo accorti di disporre in modiche quantità, perché non cade, ma anche perché l’abbiamo inquinata. Perdendo i pezzi del paesaggio, non ci lasciamo sfuggire solo una risorsa, ma perdiamo la possibilità di ricostruirne l’autentica immagine e l’opportunità di servircene. La memoria serve per poterci fermare in tempo, prima che il disastro sia avvenuto”. Del resto un uso razionale delle risorse è il grande tema che l’ambiente pone davanti ai nostri passi per i prossimi anni, un uso razionale che, a volerne seguire qualche esempio basterebbe – è il caso di sottolinearlo – un piccolo sforzo di memoria, puntualmente richiamato dalla docente dello IUAV di Venezia Viviana Ferrario durante la serata organizzata da G.R.A.S.P.O.. L’esempio fornito è stata la piantata stessa, sistema di allevamento viticolo a cui la ricercatrice ha dedicato anni si studio.
Perdendo i pezzi del paesaggio, non ci lasciamo sfuggire solo una risorsa, ma perdiamo la possibilità di ricostruirne l’autentica immagine e l’opportunità di servircene
“La piantata padana – ha spiegato – come gli altri esempi di piantata adattati ai vari territori d’Italia, era un sistema di appoderamento che oggi definiremmo multitasking. Ossia riusciva a rispondere a più esigenze contemporaneamente, anche se queste erano quasi tutte dettate dalla povertà dei secoli scorsi. La piantata era sicuramente un vigneto, ma dalla piantata non si otteneva solo l’uva, più propriamente erano viti “maritate” ad un sostegno vivo, in genere all’olmo, all’acero campestre, al salice, al pioppo, ai gelsi o non più raramente a qualche albero da frutto, come nel caso del ciliegio o del pero. I vantaggi che tale sistema garantiva erano molteplici, visto che contemporaneamente venivano sviluppate diverse colture oltre l’uva: i frutti degli alberi reggi-vigna e le foglie, che spesso venivano raccolte ancora verdi per essere destinate all’alimentazione invernale degli animali della stalla o ai bachi da seta, nel caso del gelso. Gli alberi poi fornivano tavole per realizzare mobili e arredi, o con le specie forti e da cima, come la farnia, venivano prodotte travi e il legname da opera. Le ramaglie, ovviamente, diventavano fascine da destinare al riscaldamento o alla cucina. Non va tralasciato poi che sotto ai filari si stendevano spazi erbosi (strene, rivali) dai quali si otteneva una modesta produzione foraggera da destinare agli animali della corte.
Il vino, dunque, era importante come lo erano le altre produzioni, né più né meno, fondamentale invece era l’ottimizzazione degli spazi, delle rese e della gestione con una produzione di scarti prossima allo zero. Ecco quindi che in un “impianto” agricolo di mille anni fa, l’impiego della piantata va dal Basso Medioevo ai decenni centrali dell’Ottocento, troviamo un gran numero di quegli elementi che la ricerca sta proponendo all’agricoltura moderna ad iniziare dal “vertical farming”, l’agricoltura verticale, che nella piantata era già organizzata su tre piani: suolo, livello dei frutti della vite, rami degli alberi, all’aumento della biodiversità, superando il concetto di campagna condotta a monocoltura, e alla sostenibilità.
Eppure 150 anni fa la piantata è stata abbandonata perché ritenuta non più razionale. Il dibattito è stato lungo, il superamento di questo sistema di appoderamento ha richiesto più di vent’anni, ma alla fine ha ceduto il passo a una nuova visione del paesaggio agricolo e alla nuova razionalità del suo sfruttamento che oggi sappiamo non essere stata cosi lungimirante”.
Un uso razionale delle risorse è il grande tema che l’ambiente pone davanti ai nostri passi per i prossimi anni
Dunque saper trovare nel passato le risposte che servono al presente non è solo un’operazione storiografica, ma è un modo per tenere unito il tempo dell’uomo e avvalersi di strumenti che hanno già secoli di rodaggio, senza abbandonarsi alle forme dell’agricoltura apolide. In una parola sarebbe la capacità di servirsi di quella tradizione, spesso richiamata a sproposito per indicare mere manifestazioni folcloristiche, per farla tornare ad essere innovazione … a patto di saperne conservare la memoria e di ragionarci su con razionalità. Intanto il sindaco di Urbana, Michele Danieli, si è detto disponibile a trovare una forma di “tutela” per la piantata di Guarise, sia perché diverse generazioni di urbaniesi vi hanno trascorso lì la loro infanzia, attirati dalle opportunità di gioco e dalla disponibilità di frutti che i rami offrivano, sia perché dalle “marze” di viti secolari è partita la moderna produzione del Vernazola a cura della cooperativa agricola La Rabiosa di Casale di Scodosia, che ne sta sviluppando il potenziale enologico. Con diverse tipologie di vinificazione: dalla spumantizzazione, al metodo sur lies, all’anfora stanno nascendo le prime bottiglie che raccolgono la poliedricità di queste antiche uve e le candidano ad entrare nel panorama della produzione di vini moderni. A questo punto si potrebbe aggiungere anche un altro “lieto fine” a questa storia, ossia che la Doc Merlara annoveri il Vernazola tra le proprie cultivar: costituirebbe un atto di giustizia nei confronti di un vitigno dimenticato per troppo tempo e una scelta di filologia storica per riconciliare il territorio al suo passato rurale.