La spesa, un gesto culturale

Il marketing è diventato uno strumento altamente persuasivo che spesso confonde l’informazione con la propaganda
In campo agricolo, l’autunno è il momento della raccolta dei prodotti maturati durante l’anno. O meglio: molti attribuiscono a questo periodo dell’anno un valore di attesa, di aspettative legate al raccolto, come se vivessimo ancora nell’Ottocento con il “buon contadino” che mette al sicuro, in cascina, il prodotto del suo lavoro per consumarlo nei mesi freddi dell’anno. Sì, come se l’agricoltura fosse destinata all’autoconsumo. Con dispense che si riempiono, vasetti di composte ordinate su scaffali e madie, tini in cui ribollono vini nel segno della genuinità, come se per mangiare non andassimo a supermercato. Insomma certe stagioni hanno la forza persuasiva di riportarci all’archetipo della campagna, facendoci dimenticare il centro commerciale che sta a monte della nostra credenza e il marketing che ogni giorno ci martella per orientare le nostre scelte. E’ quest’ultimo, infatti, che contribuisce a dipingere la campagna come il migliore dei paesaggi possibili, dove l’uomo vive in armonia con la natura, attorniato da mucche mansuete, api operose senza conoscere stress o tensioni. Un messaggio ovviamente semplificato, rispondente ad un’idea archetipa della campagna, rivolta a noi che abbiamo perso ogni rapporto con gli spazi aperti.
Gli “ammansiti”, insomma, siamo noi come sostiene anche Antonello Mangano nel suo libro dal titolo “Lo sfruttamento nel piatto”.
L’autore si cimenta nel tentativo di portare alla luce le distorsioni del nostro settore agroalimentare cercando di smascherare la mancanza di trasparenza, il ricatto subìto da lavoratori e operatori del settore, la democratizzazione degli acquisti. Per acquistare in maniera ponderata e coscienziosa – sostiene – è opportuno non cadere in falsi miti o, da “beoti”, bersi vere e proprie bufale. Insomma anche per fare la spesa occorrerebbero informazioni veritiere e attendibili e del resto è ormai assodato che sappiamo pochissimo dei prodotti che acquistiamo, anche se la tracciabilità è il cavallo di battaglia di moltissime aziende.
Sappiamo pochissimo dei prodotti che acquistiamo anche se la tracciabilità è il cavallo di battaglia di moltissime aziende
Il consumo è un fatto sociale, ma spesso diviene una azione acritica senza conoscenza, dettata da mode indotte proprio dal marketing come dimostrato anche dallo studio condotto da un gruppo di ricercatori, coordinati dall’ENEA, dal titolo: “Dialogo nell’agroalimentare” che ha per scopo proprio la promozione di un processo di riflessione collettiva sui rapporti tra Scienza e Società nel sistema agroalimentare. Perché su che cosa fanno leva le tecniche di mercato? Sul mondo delle fiabe e non certo sugli aspetti scientifici legati all’agricoltura o ai prodotti. Concetti, quest’ultimi, piuttosto complessi per il cittadino medio, perché speso imperniati su formule chimiche, su valori riferiti ad estensioni terriere, su tecniche produttive. Insomma materia ostica in un tempo in cui l’informazione è affidata ad un click, alla lettura massima di due righe oltre al titolo e tra la società stanno comparendo segni sempre più evidenti di analfabetismo funzionale, bassi livelli di istruzione scolastica e il sistematico disconoscimento di tutto ciò che odora di istituzione. L’esempio l’abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni quando incontriamo qualcuno non disposto credere che esista il Covid! Più di 30 mila morti non sono bastati? Evidentemente è più facile credere che esista un solo grande e occulto manovratore piuttosto che entrare nei dettagli di un mondo altrettanto occulto, perché microscopico e complesso. Tuttavia, stiamo parlando di minoranze oltre che di minorati, e l’esperienza recentemente vissuta ci insegna che il ruolo dei medici, virologi, scienziati a fianco di quello degli addetti alla comunicazione è tornato a funzionare, tanto da creare un clima di fiducia reciproca.
(Sonnino et al., 2016)
Tornato, certo, avete letto bene. Perché il modello del flusso delle informazioni legate al Covid è quello novecentesco, ossia risale a quando: la società finanziava la ricerca e lo sviluppo e la scienza restituiva conoscenza, benessere, miglioramento della vita e della salute in genere, riduzione della fame ecc. Lo stesso principio affermava che il pubblico non può comprendere la base scientifica delle decisioni perché non domina i concetti e le conoscenze necessarie (modello comunicativo basato sul DEFICIT di conoscenza o DEFICIT cognitivo), di conseguenza le decisioni erano prese dall’elite o dalla tecnocrazia. Con tale approccio, è innegabile, il secolo scorso sono stati raggiunti notevoli e ragguardevoli successi in ambito agroalimentare (dal 1961 al 2014 la produzione agricola è aumentata in modo più che proporzionale rispetto alla popolazione mondiale) rispondendo allo spettacolare aumento della domanda di alimenti verificatosi nel periodo citato. Tutto questo grazie all’innovazione tecnica.
Ora notiamo una inversione di tendenza (figura 2) dove il pubblico e l’opinione pubblica vogliono a tutti i costi interagire con le scelte dei decisori politici, pur senza avere le corrette competenze in merito: cito solo alcuni tra gli esempi più noti, come l’energia nucleare, gli OGM in agricoltura, le nanotecnologie nell’industria alimentare, uso dei vaccini. L’attuale sistema di relazione sociale risponde infatti al seguente principio: le decisioni sono percepite come giuste o sbagliate più in base al metodo adottato per prenderle che a cosa è stato deciso. Si nota in questo una chiara ritrosia verso il nuovo e il moderno, che spesso induce al rifiuto a prescindere.
L’agricoltura dunque soffre di un difetto di democrazia? Ossia quando il cittadino entra nei processi decisionali iniziano a crearsi dei problemi? Ma l’ideale sociale non è sempre stata la democrazia partecipativa? Se fosse così potremmo anche decidere a maggioranza e per alzata di mano che la terra è piatta. Il problema non è questo, ma risiede nella capacità di ognuno di noi di saper leggere la realtà dal suo racconto, anche in supermercato o in fattoria. Ricordate quante rivoluzioni ci sono state in agricoltura? Produzioni capaci di cambiare il mondo? La Paulonia ad esempio che doveva bloccare la deforestazione dell’Amazzonia? La colza? Una coltura bellissima che in primavera riempiva di giallo le nostra campagne e che doveva portare ad un’evoluzione verso gli idrocarburi vegetali. Non se n’è più sentito parlare. E che dire degli orti sociali? Dovevano essere l’emblema della “mutua socialità”, poi invece gli smatphone hanno avuto il sopravvento sulla zappa e il mondo social è diventato l’emblema dell’isolamento e di un presente a misura di “ego”. Valli a capire in anticipo, tu, i tempi….