La scoperta del brodo … anzi no: era acqua calda
“Naturale” o “biologico” vengono usati come sinonimi di buono, salutare, sicuro e genuino, ma non sempre questo è vero: spesso l’aggettivo è usato in modo improprio ed è strumento del marketing
Lo ammetto, sono abbastanza critico nei confronti di tutto quello che contiene il prefisso “bio”; per me qualsiasi prodotto “organico” è biologico: ovvero viene prodotto attraverso processi biologici e si degrada altrettanto biologicamente. Insomma non mi basta la fogliolina verde con le dodici stelline per acquistare la serenità insieme ai prodotti della spesa, mi serve di più, voglio conoscere di più: per natura – ecco la mia accezione di naturale – mi documento.
A dividere ciò che si ritiene “il buono” da ciò ce si ritiene “il cattivo” molto spesso c’è un velo: trasparente, impalpabile, invisibile agli occhi dei più
E’ per questo che certe puntate dedicate alle aziende dell’agroalimentare, che spesso fanno inorridire l’opinione pubblica, mi inorridiscono di meno. Non perché io non sia sensibile alla causa degli animali, non perché non provi disgusto per certi trattamenti a cui vengono sottoposte le povere bestiole, ma perché so che spesso a dividere ciò che si ritiene “il buono” da ciò ce si ritiene “il cattivo” molto spesso c’è un velo: trasparente, impalpabile, invisibile agli occhi dei più. Anzi è proprio in questo velo che sono “incartate” le nostre convinzioni. Poggiano sul nulla. E’ il caso di Fileni Bio finito sotto alla lente d’ingrandimento della trasmissione Report su Rai 3. Trasmissione che a mio avviso ha avuto il merito di portare all’evidenza l’ovvia conclusione che un conto è il marketing, necessario a dipingere i prodotti – in questo caso bio – di un’aura agreste e bucolica, e dall’altro i disciplinari di produzione. Eh sì, la scoperta in questo caso, ammesso che sia tale, è stata che tra gli allevamenti biologici e quelli convenzionali non c’è questa grande differenza. Giusto un velo. E come affermava Stephen Hawking: “Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, ma l’illusione della conoscenza”.
Pensare che in un allevamento industriale i polli possano vivere come nel pollaio di nostra nonna è decisamente fuori luogo, anche perché bisognerebbe pure conoscere le condizioni in cui le galline vivevano presso nostra nonna. Io per esempio conservo immagini strazianti dei poveri pennuti, nel momento in cui arrivava la loro ora. E anche prima della “loro ora”, e del resto a mia nonna non passava neanche per l’anticamera del cervello di dare un nome alle galline o di mettere il riscaldamento nel pollaio. Alle galline per la cova venivano cuciti gli occhi, o nel migliore delle ipotesi ubriacate, affinché non lasciassero incustodite le uova. Però il marketing ci fa credere in una tradizione mite, in equilibrio con il mondo animale e in generale con la Natura. Ecco, forse sta qui il vero problema, nel senso che è sicuramente un bene che gli animali non vengono allevati in poco spazio, perché ciò aumenta il rischio di trasmissione di malattie: aviaria o salmonelle, tanto per fare un esempio, ed è per questo che si usano antibiotici. Ma è altrettanto vero che le trasmissioni di queste malattie possono avvenire con maggiore frequenza su animali allevati all’aperto, a contatto con animali selvatici, come nel caso della diffusione della peste suina veicolata da cinghiali. Dove sta, dunque, la vera sicurezza alimentare? Ma ci sono anche discriminazioni di specie, altrettanto pericolose.
Il pollo è l’animale allevato in assoluto più sostenibile, fornendo 55 volte più cibo del salmone, crescendo in meno spazio e molto più velocemente
E’ il caso del pollo broiler, considerato figlio del laboratorio e non della natura, e del resto è stato “selezionato” proprio per l’alta resa in carne. In questo caso andrebbe considerato che il pollo fornisce le carni più sostenibili e disponibili – secondo un recente articolo di Current Biology – in quanto produce 55 volte più cibo del “salmone”, crescendo in meno spazio (anche se lo stesso salmone viene allevato) e molto più velocemente. Quindi dove sta la vera sostenibilità ambientale? Nella dicitura “naturale”? Forse vale la pena chiarire un equivoco molto diffuso: l’agricoltura, per definizione, è una pratica innaturale che l’uomo ha dovuto inventare per difendersi dalla natura. E non credo che i primi uomini agricoltori abbaino avuto nostalgia di quando erano cacciatori-raccoglitori, come non credo si dovrebbe avere nostalgia del tempo vissuto dai nostri nonni, checché ne dica il marketing.
Pensare al passato, infatti, dovrebbe implicare conoscere che la vita era molto più dura di adesso. Forse vale la pena ricordare che molti nonni, bisnonni sono espatriati per la fame e per le tribolazioni. Molti sono morti di stenti. Una volta (appena 100 – 150 anni fa) in Veneto (ma anche altrove) si moriva di fame, di malaria e di scorbuto e chi poteva scappava da questa miseria. Si emigrava verso il Sud America, il Nord America, la Francia, il Belgio, la Germania. La cena spesso consisteva in un uovo sodo diviso in quattro parti, un quarto per bocca, una particola, tanto era sottile, di salame a testa e un cucchiaio di polenta. Era quello il mondo naturale? Le salmonelle erano diffuse, il tifo facile da contrarre, nelle case era più il fumo che si respirava che il calore che il camino emanava. Naturale non sempre è sinonimo di buono, salutare, gustoso e sicuro. Naturale non è sinonimo di “senza chimica”: tutto è chimica, anche il biologico e il biodinamico. Non abbiamo nulla di chemical free, la chimica è ovunque e questa sostanziale confusione tra natura e tradizione è abbastanza pericolosa.
L’agricoltura deve considerare una evoluzione verso forme ecologicamente ed economicamente sostenibili rimanendo pur sempre produttiva
Il periodo storico che viviamo, per importanti ragioni, impone di adottare sistemi agricoli colturali diversi da quelli attuali: lo impongono le considerazioni dei rapporti tra agricoltura e ambiente. L’agricoltura deve perciò considerare una evoluzione verso forme ecologicamente ed economicamente sostenibili. Ma contestualmente deve rimanere produttiva, se si vuole evitare di mettere in coltura nuove terre vergini. Attualmente, nel mondo, vengono messe in coltivazione oltre 10 milioni di ettari ogni anno; sono terre spesso marginali che ospitano particolari forme di biodiversità. Se incentivata, la ricerca può contribuire a proporre nuovi sistemi colturali, mettendo a punto varietà di cereali e/o leguminose perenni che evitino le arature, che siano immuni da attacchi di agenti patogeni e fitofagi per limitare l’uso di agrochimici, che diano derrate più adatte all’alimentazione per contenuto proteico e aminoacidi essenziali. L’agricoltura biologica, può essere considerata un’evoluzione positiva sulla strada dei miglioramenti dei sistemi; lo sarebbe ancor di più se volesse affrontare, in modo ecologicamente sostenibile, i problemi posti dalla difesa da infestanti, parassiti e patogeni. Invece la sua “vulgata” è incentrata sull’incarnazione banale e, come abbiamo visto, errata di un passato e di una tradizione di cui davvero non ci sarebbe alcun bisogno. Oggi la strada giusta è senz’altro quella di privilegiare le innovazioni, la tecnica, la scienza in quanto sono le uniche armi con cui sarà possibile raggiungere il domani anche a tavola.