L’Abbazia picta, Santa Maria delle Carceri
Una breve descrizione delle principali opere pittoriche contenute nel compresso abbaziale: dall’Annunciazione di Luca Ferrari agli affreschi della Biblioteca
A cura della dott.ssa Chiara Ceschi
“Carceri – Chiesa sacra all’Annunciata. Una delle più belle produzioni ch’uscissero dal pennello di Luca Ferrari da Reggio è nel coro il gran quadro con N. D. Annunziata. Nell’alto vi è il Padre Eterno circondato da vaghissimi angioletti. Questa pittura ch’è d’una meravigliosa conservazione, ha alcune parti toccate con tanto spirito e tal grazia e finezza di gusto…”.
Così l’erudito e appassionato di storia dell’arte Giannantonio Moschini sigla la sua visita alla chiesa di Carceri durante una delle molte ricognizioni fatte nel territorio padovano nei primissimi anni dell’Ottocento; la bella tela dell’artista emiliano ̶ stabilitosi a Padova verso il 1639 e inseritosi subito nel giro di committenze pubbliche, soprattutto per pale d’altare in città e nel territorio (Castelbaldo, Villa Estense, Conselve) ̶ onorava la dedicazione della chiesa alla Beata Vergine Annunciata, come altre opere d’arte e di arredo commissionate nel corso dei secoli. Raffinata è infatti la stesura pittorica e originale la composizione della scena: scalata in diagonale, a partire dal Dio Padre verso la figura prorompente nell’anatomia e nei panni vorticanti dell’angelo, sino al fulcro tematico ed espressivo della Vergine, animata dalla sua emozione: la esplicitano i morbidi trapassi chiaroscurali nel viso, i panneggi ampi e soffici, la gestualità misurata ma ‘parlante’.
Desta l’interesse di Moschini, pur non esponendosi con un’attribuzione precisa, anche la pala al terzo altare a destra, già dedicato a San Pietro: una Crocifissione con Maria Maddalena, Giovanni e la Madonna che sappiamo essere opera del pennello di Johann Carl Loth, pittore bavarese, famoso come ritrattista alle corti asburgiche e attivo a Venezia intorno al 1650 dove era noto soprattutto per l’abilità nell’orchestrare scene storiche di grande formato. Sarà proprio il conte Francesco Carminati a commissionargli una pala con la Crocifissione per la cappella di famiglia a Sombreno, nel bergamasco, prima del 1683; così, quando il figlio Carlo, abate di Carceri, progetta di trasformare un altare della chiesa in monumento funebre della sua famiglia (lo stemma è sull’architrave), è a Carl Loth che chiede una replica della pala di Sombreno. Il corpo di Cristo in croce, dall’anatomia chiarissima contro lo sfondo del cielo, occupa il centro della scena affiancato da due angioletti in volo e contrasta con le cromie delle figure di Maria e Giovanni, a terra in primissimo piano, e della Maddalena in piedi sulla destra. Il movimento che anima i panneggi è inteso poi come contraltare dei sentimenti espressi dai gesti dei protagonisti, quasi come in un recitativo teatrale. La qualità della pittura e la scelta dei marmi preziosi, con la predominanza del nero e tocchi di giallo per le colonne e la mensa, fanno emergere questo altare nella sequenza delle cappelle seicentesche che si presentano tutte diverse nella forma e nella cromia dei prospetti, nei fastigi marmorei talora arricchiti da statue di angeli, ospitanti dipinti del medesimo periodo.
La chiesa visitata dal curioso “intenditore” veneziano è infatti quella consacrata nel 1686 dal cardinale Gregorio Barbarigo e che ammiriamo ancora oggi, che ospita tre cappelle per parte, poco profonde, con gli altari dedicati a sant’Isidoro (datato “1692”), alla Madonna, a san Pietro, a destra: intitolati a sant’Antonio da Padova e santa Lucia, san Bellino vescovo, e san Romualdo, quelli a sinistra. Anche nei brevi lati che smussano il rettangolo della pianta si inseriscono tele (ai lati dell’arco trionfale una Assunzione e la Pentecoste, datate 1650), entro cornice in pietra e, al di sopra, statue di santi. Testimonianze degli interventi decorativi realizzati intorno a metà Cinquecento, sono le due lunette affrescate sui muri laterali del presbiterio: rappresentano il Trasporto della salma di san Teobaldo all’abbazia della Vangadizza (a destra) e l’episodio di San Romualdo che soccorre un uomo ferito (a sinistra).
Il Battistero
Un ciclo dai contenuti salvifici in uno stile tardogotico della seconda metà del XV secolo
Dall’ampio spazio del coro ̶ dove in tempi recenti la pala di Luca Ferrari è stata ricollocata sulla parete finale, in asse con l’altare maggiore ̶ si passa all’antisacrestia per accedere al piccolo vano a pianta
quadrata destinato ora a Battistero, di grande importanza per la decorazione ma soprattutto perché è l’unica testimonianza rimasta del sistema di quattro torrette che segnavano gli angoli del chiostro romanico adiacente al lato destro della chiesa. Il ciclo di affreschi, risponde a un progetto unitario articolato su pareti e volta, da collocare probabilmente nel periodo dell’abbaziato di Pietro Boldù (1444-1495). Sopra uno zoccolo in cui si finge il drappeggio di un tessuto (rimane un frammento rosso porpora a motivi floreali entro rombi stilizzati) e delimitati da cornice vegetale, quattro lunettoni rappresentano scene legate al messaggio salvifico: di fronte all’ingresso, l’Annunciazione, l’unica delimitata da una fascia a motivi geometrici in prospettiva ad accentuare l’illusione della profondità della scena; a destra emerge dal bellissimo sfondo rosso la Crocifissione con i simboli della Passione; a sinistra la Pentecoste; sopra la porta la Resurrezione. Si ritiene che sia qui all’opera, ad eccezione dell’episodio con Maria annunciata, un artista di cultura tardogotica per la tensione nervosa della linea nel definire i corpi e i visi, il nodo del perizoma, in particolare nella Crocifissione dove si delinea il bel profilo di Giovanni di cui distinguiamo l’incarnato e la morbida resa delle ciocche dei capelli.
Gli affreschi della Biblioteca
La vicenda artisticamente più rilevante del complesso di Carceri, l’ambiente ideale per lo studio dei monaci dell’abbazia che a tutt’oggi non ha un’attribuzione
Nota agli studiosi solo dal 1936 per una segnalazione di Vincenzo Pertile, accolta oralmente da Giuseppe Fiocco, è invece la vicenda artisticamente più rilevante del complesso di Carceri per la qualità della pittura e perché non è stato ancora sciolto il nodo dell’attribuzione: il ciclo di affreschi della Biblioteca. La decorazione occupa la parte alta delle pareti, essendo stata fatta iniziare dove, originariamente, arrivavano i mobili che ospitavano i preziosi volumi. Una semplice ma raffinata partitura architettonica di finte paraste scanalate scandisce tutta la superficie muraria, creando riquadri rettangolari o ampi ovati entro leggere cornici, alternati a nicchie più strette; negli spazi più grandi campeggiano le figure a forti colori dei quattro Dottori della Chiesa (sant’Agostino, san Pier Damiani, San Gregorio Magno, san Girolamo), del priore committente e di un ignoto poeta laureato; nelle nicchie, otto Profeti e un’Allegoria, dipinti in terra gialla dorata a imitare delle statue di bronzo. Soprattutto il linguaggio esibito nella parte centrale della parete lunga di destra, con la Madonna Annunziata e con l’Arcangelo Gabriele, intervallati dal profeta Isaia, ha inizialmente portato gli studiosi a individuare il responsabile del ciclo nella figura di Giuseppe Porta Salviati, artista toscano di cultura manierista presente a Venezia e Padova tra il 1539 e il 1541. In seguito, si è ipotizzata la mano di Giambattista Zelotti, coetaneo di Paolo Veronese e come lui specializzato nella decorazione di molte ville, nel vicentino e nel padovano. Pur mancando ancora testimonianze documentarie e pregnanti confronti stilistici, di recente è stata fatta l’ipotesi che sia qui all’opera Ermanno Armani, pittore attivo a Venezia e poi nell’ambito di Zelotti nella pratica dell’affresco insieme al fratello Antonio.
La mancanza di un nome non impedisce però al visitatore di oggi di ammirare le pitture e di comprendere come l’artista del Cinquecento abbia saputo creare l’ambiente ideale per lo studio dei monaci dell’abbazia.