L’agricoltura motore del cambiamento post Covid

Basterebbe risolvere i problemi endemici che affliggono il settore per una rinascita economica del Paese
Durante il periodo di forzato riposo a causa di Covid-19, ho riempito una cartella di articoli sulle possibili cause di questa pandemia. O meglio: ho cercato di rispondere alla dilagante sequela di opinioni personali, spesso del tutto fuorvianti, che sono state sbandierate ai quattro venti della comunicazione moderna, ossia i social, anche contraddicendo quella che era l’evidenza dei fatti. Ovviamente mi sono concentrato su quelle che toccavano il settore primario, perché a quelli che pensano che il Covid sia stata una montatura o un virus creato in laboratorio per dare un giro di vite alle libertà individuali…non ho ragionamenti, figli di un pensiero razionale, da contrapporgli. A parte gli scherzi, il tema dell’agricoltura per me è importante, ma dovrebbe esserlo per tutti, visto che è il settore che ogni giorno ci fornisce il necessario per tenerci in vita.
Si è parlato molto, e giustamente, “degli eroi in corsia” pochissimo degli agricoltori che hanno prodotto cibo sano e a prezzi accessibili
Eppure anche la particolare situazione creata dal Covid è stata un osservatorio per vedere quanto poco il tema delle nostre campagne rientri nel dibattito quotidiano, e quel poco, spesso, è anche in forma denigrante. Tanto per fare un esempio: una riflessione sulla parola “intensivo”, ormai sempre più sinonimo di forzato, di innaturale, di contrario alla benessere tanto che qualsiasi allevamento, qualsiasi coltura, qualsiasi produzione che abbia come aggettivo “intensivo” fa accendere una lampadina rossa, magari per via di qualche “servizio” visto alla tv su allevamenti di maiali o polli. Non sono tutti così gli allevamenti intensivi, in linea di massima tutti gli allevatori sono tenuti ad osservare le norme generali per la protezione degli animali da reddito, fondato sul canone delle “cinque libertà”: la libertà dalla fame e dalla sete, la libertà dal disagio, la libertà dal dolore, la libertà di espressione del normale comportamento e la libertà dalla paura e da fattori stressanti.
Tuttavia non è degli allevamenti che volevo parlare in questo articolo, ma più in generale dell’agricoltura al tempo del Covid e stigmatizzare quanto questa abbia avuto una posizione ancillare rispetto ad altri settori lavorativi. Si è parlato molto, e giustamente, “degli eroi in corsia” riferendosi ai medici e agli operatori sanitari che nel pieno della pandemia hanno dedicato anima e corpo alle cure dei tanti che purtroppo hanno contratto il contagio, ma pochissimo di quegli agricoltori e allevatori che altrettanto indefessamente hanno continuato a lavorare per permettere a tutti gli altri di trovare cibo sano e a prezzi accessibili durante il periodo del lockdown. Probabilmente abbiamo visto tutti schizzare in alto i prezzi di mascherine e gel sanificante mentre quelli delle zucchine e piselli del contadino sotto casa rimanere stabili, ma per l’opinione pubblica se si sono visti cinghiali, cerbiatti e altri animali passeggiare per le nostre strade e città è perché si è fermata l’agricoltura. Quando invece è vero il contrario.
Il covid ha sfatato un’altra leggenda popolare, ossia che l’agricoltura sia tra i principali responsabili dell’attuale situazione climatico-ambientale
La Natura non si è reimpossessata dei suoi spazi perché gli agricoltori e gli allevatori erano chiusi in casa, ma perché lo erano tutti gli altri! Se durante questi tre mesi è migliorata la qualità dell’aria e delle acque, sono diminuiti i rumori, il traffico, i voli aerei, questo è stato merito del coronavirus. L’agricoltura e la zootecnia hanno continuato senza interruzioni a lavorare, a produrre, a sfamare i molti animali negli allevamenti. Quindi, se ne deduce anche che il covid ha sfatato un’altra leggenda popolare, ossia che l’agricoltura sia tra i principali responsabili dell’attuale situazione climatico-ambientale. I problemi legati all’agricoltura, invece, a mio avviso sono altri e il primo riguarda il mondo del lavoro. La maggior parte delle persone impiegate, infatti, sono lavoratori autonomi e del milione di dipendenti il 97% sono operai, il 90% dei quali sono impiegati a tempo determinato. Emerge dunque un quadro frammentato, fortemente stagionalizzato e dipendente da manodopera estera, visto che un lavoratore su tre proviene da oltreconfine. Se infatti oggi mancano all’appello circa 370mila stagionali (dati Coldiretti) ci sono anche molti neo-disoccupati italiani in cerca di un impiego. Persone che tuttavia, provenendo da altri comparti, devono essere formate, con i tempi e i costi che questo comporta.
Va ricordato come dal 1961 ad oggi l’Italia abbia perso quasi la metà della sua superficie agricola e come ormai da anni il settore sia la Cenerentola dell’encomia italiana, nonostante possa esprimere eccellenze che se debitamente valorizzate potrebbero generare un ritorno economico considerevole. E allora quei 100 miliardi di export che oggi sembrano lontani sarebbero a portata di mano. Soprattutto se l’agricoltura entrasse in risonanza con il turismo e con il tema della sostenibilità, oggi al centro dell’agenda politica economica e sociale del vecchio continente. Ma lo dovrà essere in modo serio, però, perché come scrive Giuseppe Bertoni, “tutti questi proclami nel generale hanno obiettivi condivisibili (sostenibilità, energie rinnovabili, riduzione del gas serra), ma peccano quando questi concetti vengono abusati e impiegati in approcci solo verbosi in contesti, quasi banali, di vita bucolica rappresentata solamente dalla pubblicità”.
Dal 1961 ad oggi l’Italia ha perso quasi la metà della sua superficie agricola. Ormai da anni è un settore “Cenerentola” nell’encomia italiana
Sicuramente il periodo di clausura ha permesso a molti di riflettere, ad altri di amplificare i propri disturbi mentali, ma è fuori da ogni dubbio che se vogliamo prendere in considerazione il tema del cambiamento questo dovrà riguardare sia i macro ambiti, dove vengono prese le decisioni: Comunità Europea, stati nazionali, e amministrazioni locali, sia la sfera individuale come uomini, individui, consumatori. E l’agricoltura con la risoluzione dei sui problemi endemici, compresa l’infelice nomea prodotta per spostare l’accento della sostenibilità ecologica su categorie green insignificanti sul piano dei numeri della produzione, potrebbe essere il settore giusto da cui iniziare un cambiamento, perché se così non fosse potremmo aspettare anche il 2050, ma non vedremo alcun risultato. Possiamo adottare tutti i Green Deal che vogliamo, ma finita l’emergenza torneremo quelli di prima. La speranza, mia personale, è di non peggiorare.