PFAS: il disastro silenzioso
L’inquinamento provocato dall’azienda di Trissino, Miteni, ha assunto dimensioni gigantesche. Il monitoraggio degli effetti coinvolge circa trecentomila persone, eppure la strage degli alberi nelle Dolomiti ha fatto più notizia
L’acqua scorre dalla terra verso il mare, evapora, ritorna alla terra sotto forma di pioggia. Ma c’è un altro ciclo altrettanto prezioso soprattutto per la vita animale: l’acqua che scompare nel terreno, purificandosi in modo naturale in decenni di lenta filtrazione che la conduce ad accumularsi in falde profonde. Alla fine, riemerge nelle risorgive. A queste falde e a queste risorgive attingono in gran parte gli acquedotti veneti per il bisogno dei propri cittadini. Le falde acquifere nel Veneto sono infatti abbondanti nella fascia pedemontana, ma sono sotto osservazione perché sovrasfruttate negli ultimi decenni e in costante, pericolosa, contrazione.
L’uomo però non si accontenta di abusare delle risorse naturali, fa di più: le inquina. Il caso sotto gli occhi di tutti è quello di Trissino, in provincia di Vicenza, dove nelle acque vi sono altissimi livelli dei cosiddetti PFAS, sostanze perfluoroalchiliche utilizzate in campo industriale per la loro capacità di rendere i prodotti impermeabili all’acqua e ai grassi. Sostanze non naturali, quindi, ma di origine umana, che riversate per decenni nei torrenti sono arrivate a inquinare la falda, rendendo vani decenni di paziente lavoro della natura.
L’azienda additata come colpevole di tutto ciò – ma c’è un’indagine ancora in corso – è l’industria chimica Miteni di Trissino, che a sua volta ha chiamato in causa le centinaia di concerie della zona che di Pfas fanno un uso ampio e crescente. Nel 1966, quando qui iniziò la produzione di Pfas, nessuno sospettava che le conseguenze potessero essere così devastanti. Ma in seguito, forse, l’azienda intuì qualcosa, commissionò uno studio e qualche anno dopo smise di produrre Pfas a “catena lunga”, sostituendoli con quelli a “catena corta”, apparentemente meno nocivi. Il danno però era stato fatto. Sperare che il tutto venisse a galla il più tardi possibile è stata la probabile linea di azione. Che, poi, i processi per danni ambientali vanno per le lunghe e alla fine potrebbe finire che vadano in prescrizione. E non è un’ipotesi remota. Nel frattempo, l’anno scorso, la Miteni ha chiesto il fallimento. Qualcuno pagherà?
Autodenunciandosi, la Miteni, avrebbe forse consentito alle autorità di correre ai ripari e ridurre le conseguenze sui cittadini, ma invece si è preferita la via del silenzio, forse auspicando che il problema emergesse il più tardi possibile
“La Miteni, ma prima di lei altre, all’inizio c’era la Rimar ricerche Marzotto, ha continuato a riversare per anni in un torrente, e quindi in falda, prima Pfas a catena lunga e poi a catena corta, che sono comunque più inquinanti di altre sostanze rilasciate, ad esempio, dalle concerie”, ci racconta la dottoressa Marina Lecis, consulente ambientale dell’associazione La Terra dei Pfas. “Oggi che le indagini sono concluse – continua – ci aspettiamo che il Ministero dell’ambiente e la Regione chiedano i danni per i costi della bonifica. Il Ministero si dovrebbe costituire parte civile così come i sindaci e tutti i singoli che sono stati danneggiati. Quello che non mi va giù è il rischio che la causa vada in prescrizione perché i reati per cui la Miteni è imputata sono stati riconosciuti solo fino al 2013, anno di avvio della bonifica. Non riconoscendo il reato di “omessa bonifica” anche per gli anni successivi, non può essergli applicata la legge sugli “ecoreati”, approvata solo nel 2015, che non prevede la prescrizione”.Un plauso invece la Lecis lo indirizza al Noe (Nucleo Operativo Ambientale) di Treviso, che con il suo operato scrupoloso e efficiente avrebbe evitato che la vicenda andasse già in prescrizione. E ci rivela che, se è vero che la Miteni è chiusa, a rispondere potrebbero essere chiamate le aziende che la controllavano, la Mitsubishi fino al 2009 e la Icig successivamente. “Due aziende che, a differenza della Miteni, godono di ottima salute”, precisa.
La situazione attuale è che gli acquedotti sono a posto grazie a un enorme sforzo anche economico da parte dell’ente gestore per dotarsi, ad esempio, di appositi filtri a carboni attivi. Nel frattempo la Regione ha abbassato i limiti di Pfas consentiti nelle acque potabili. Il problema è che se si ammorbano le falde, non basta versare un po’ di cloro, come in piscina, e tutto si risolve: le acque rimarranno inquinate per decenni e forse più. Così come quelle dei pozzi e delle risorgive, e poi dei fiumi in cui confluiscono e dei territori che attraversano. Dove vi saranno sempre animali che si abbeverano e pesci che sguazzano. E qualcuno che magari ci irrigherà la campagna. Per decenni la popolazione civile ha assunto Pfas bevendo acqua dai rubinetti di casa e dalle fontanelle di strada: il corpo li espelle a fatica, ci vogliono anni. Nel frattempo nella zona definita “rossa”, i trenta Comuni dove le persone sono state più esposte prima dell’applicazione dei filtri agli acquedotti e in cui le analisi hanno rilevato limiti ben oltre la norma nella maggioranza delle persone esaminate, potrebbe non essere impossibile assumerne ancora, ad esempio mangiando carni e verdure.
Esiste una probabile associazione tra esposizione a PFOA e ipercolesterolemia, ipertensione in gravidanza e pre-eclampsia, malattie della tiroide e alterazioni degli ormoni tiroidei, colite ulcerosa, tumore del rene e tumore del testicolo
Il rischio potenziale e sanitario non è stato ancora quantificato, ma recenti studi pare abbiano dimostrato che i Pfas si accumulano negli organismi e ne vengono espulsi a fatica. Il sito della Ulss 8 Berica cita studi americani secondo cui “esiste una probabile associazione tra esposizione a PFOA e ipercolesterolemia, ipertensione in gravidanza e pre-eclampsia, malattie della tiroide e alterazioni degli ormoni tiroidei, colite ulcerosa, tumore del rene e tumore del testicolo”. Nonostante l’Istituto superiore di Sanità abbia minimizzato i rischi per la popolazione, il presidente della Regione del Veneto ha emesso un’ordinanza con la quale ha vietato il consumo di pesce proveniente dalle acque superficiali della cosiddetta “zona rossa”, prorogato fino al 30 giugno 2019. La zona rossa, a est di Trissino fino al mare, riguarda 90mila persone. Ma l’area di monitoraggio per le possibili ricadute sulla salute si è allargata a territori di quattro province venete: da Trissino il problema è arrivato fino al Polesine, ma tocca l’area a sud dei Berici e dei Colli Euganei fino al veronese, portando così a circa 300mila il numero di persone.
Le strutture pubbliche e gli enti locali come la Regione hanno posto in atto azioni d’emergenza, non sempre tempestive, come i piani di sorveglianza sanitaria con esami gratuiti per chi vive nell’area di massima esposizione. Se anche qualcuno un giorno pagasse per questo disastro, considerato il più grave nel suo genere a livello mondiale, non sarà mai abbastanza, soprattutto perché le conseguenze non sono ancora ben chiare né quantificabili. Si saprà mai se vi saranno persone morte a causa dei Pfas, quanti bambini non saranno nati per infertilità, quanto sarà costato alla sanità pubblica curare le patologie croniche da essi indotte?
Si saprà mai quante persone saranno morte a causa dei Pfas, quanti bambini non saranno nati per infertilità, quanto sarà costato alla sanità pubblica curare le patologie croniche da essi indotte?
A noi di “Con i piedi per terra” pare che di questo disastro ambientale, su scala europea, si parli troppo poco. Per fortuna vi sono dei comitati civici che tengono viva l’attenzione. La strage degli alberi nelle Dolomiti ha fatto più notizia: giustamente i veneti si sono mobilitati per sostenere la rinascita delle loro montagne e delle popolazioni che le abitano. La popolazione colpita dai Pfas è però maggiormente investita, c’è gente che convive ogni giorno con angoscia nella testa… È necessario essere solidali anche con loro, prima di tutto informandoci: siamo consci che la cosa riguarda anche noi? Sperando che a qualcuno non faccia male che se ne parli.