Scorci veneti nella pittura del Rinascimento
Nelle opere di fine del XV secolo gli sfondi che accompagnano le immagini sacre iniziano ad impreziosirsi di paesaggi. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, non si tratta della ripresa del landscape reale, ma piuttosto di libere interpretazioni che lo ricordano in chiave poetica
Verso la metà del 1400 si assiste, nella pittura veneta, ad una vera rivoluzione: si abbandonano i “fondi oro”, di tradizione bizantina e gotica, ma anche il prezioso e sognante decorativismo caro al tardo gotico. Sulla scorta delle scoperte fiorentine, e a partire da quel testo fondamentale che è la Cappella padovana degli Ovetari (dipinta, con altri, da Andrea Mantegna agli Eremitani tra il 1448 e il 1457), il mondo ora si dispiega sulla superficie pittorica secondo una trama razionale fornita dalle regole della prospettiva: l’uomo, le cose e gli oggetti quotidiani, gli elementi naturali, gli edifici non sono solo riprodotti con quell’abilità mimetica di cui già la pittura fiamminga aveva dato prova, ma si scalano gli uni rispetto agli altri e si relazionano tra loro secondo quelle che sono (per la cultura rinascimentale) le leggi vere e naturali della vista.
La retorica artistica imponeva che il pittore prelevasse dalla realtà dei frammenti e che la sua creatività li sottoponesse ad un riassemblaggio
Se il mondo di Mantegna è, a quella data, soprattutto uno sfondo di architetture di impronta classica (sulla scia della coeva riscoperta dell’antico), ben presto lo sguardo si dilaterà fino a comprendere la natura, anche nelle sue variazioni atmosferiche.
E’ il cognato del Mantegna, Giovanni Bellini (1430 ca- 1516) a inventare, per così dire, il paesaggio, facendone un comprimario accanto alle Madonne, ai Cristi, ai Santi che vi si stagliano contro. Non è tuttavia intento dell’artista ritrarre esattamente un determinato contesto ambientale. Ciò avviene in rari casi, come nella Pala di Pesaro, sul cui sfondo si riconosce la Rocca di Gradara. Il fatto è che la composizione del quadro è sottoposta alle stesse prescrizioni che la retorica imponeva allora alla composizione di un testo scritto: inventio, dispositio ed elocutio (cioè la scelta dei temi, la loro composizione ed il modo di esprimerli) prevedono che il pittore prelevi dalla realtà dei frammenti che la sua creatività sottopone ad un riassemblaggio, in sintonia col tema che intende trattare. Un interessante esempio di questo procedimento lo si può riscontrare nella “Resurrezione” dipinta da Giovanni Bellini verso il 1475-79, sullo sfondo “il profilo dei Colli Euganei spicca, ancora avvolto nell’ombra, contro i rosa e gli azzurri dell’aurora. Gli attimi del risveglio della campagna alla vita quotidiana (quando la lepre torna a cercare il cibo e il pastore ha appena fatto uscire il gregge dal recinto) coincidono con quelli del più grande evento nel rapporto tra l’uomo e Dio, la resurrezione di Cristo …[che] ascende senza peso contro l’azzurro notturno che tra poco si scioglierà ai raggi del sole, mentre la brezza muove lentamente il lenzuolo funebre e la bandiera del trionfo sulla morte” (Federico Zeri). C’è anche chi ha riconosciuto nella rocca che si innalza sul colle a destra il mastio di Monselice ma, anche fosse, la cittadina ai suoi piedi non è, ad evidenza, che una ricreazione poetica.
Elementi ricorrenti tipici del paesaggio veneto sono due tipologie di costruzioni edilizi che ancora lo caratterizzavano: la capanna rustica e la torre medievale
Con Giorgione (1478 ca-1510) il dialogo tra personaggi ritratti e sfondo naturale si fa più intenso ed intimo: il paesaggio rieccheggia sentimenti e pensieri delle assorte figure, anche grazie ad una tecnica pittorica capace di catturare la luminosità e le vibrazioni dello spazio atmosferico. Lo vediamo nella misteriosa “Tempesta” delle Galleria dell’Accademia di Venezia, il cui tema sfugge tuttora agli studi.
Tanto il mondo di Bellini è intriso di profonda religiosità, quanto quello di Giorgione è aperto ai complessi motivi intellettuali propri della cerchia dei suoi raffinati amici veneziani, tra cui Pietro Bembo.
Verso il 1508 Giorgione dipinge la Venere dormiente di Dresda dove, in un ideale passaggio di testimonio, è probabilmente il giovane Tiziano (1490 ca- 1576) a dipingere il panorama sulla destra. A questo data è stata ormai messa a punto, per la pittura di paesaggio, una formula che lo stesso Tiziano ripeterà più volte (dal Concerto campestre del 1509 al Venere ed Adone del Prado del 1553 ca…). A decretarne la fortuna contribuirono anche i disegni e le incisioni di Giulio e Domenico Campagnola, la cui cultura figurativa si era nutrita abbondantemente degli apporti della pittura nordica, dai fiamminghi a Dürer. Semplificando, si tratta di ampi orizzonti che si perdono su colline e montagne lontane, dove alberi maestosi fanno quinta sul piano più vicino, mentre in quello intermedio si scorgono villaggi od edifici campestri. Vano sarebbe cercare di rintracciare in questi scorci delle precise memorie di un reale paesaggio veneto. Come ha notato uno storico, la pittura veneta del tempo ignora del tutto le novità che caratterizzavano l’ambiente agrario suo contemporaneo connotato dalla diffusione della piantata, cioè dalla più fitta divisione poderale con “i filari di viti e alberi che scandivano a intervalli regolari i campi coltivati” (F. Vianello).
Di fatto, la natura viene trasfigurata dai pittori in sintonia con la cultura aristocratica dei loro committenti: non il vero ma il verosimile, non la realtà ma la grazia che fa apparire naturale lo stesso artificio. Così accade, verso il 1560, in una delle più famose ville palladiane immersa nella campagna trevigiana (la Barbaro a Maser): quando Paolo Veronese dipinge sulle pareti, tra finte architetture, dei paesaggi apparentemente aperti verso quella stessa campagna, che di fatto non coincide con quello che si vede realmente all’esterno ma piuttosto risponde ad una natura ideale, popolata di rovine classiche. Anche questa una novità rispetto ai paesaggi tizianeschi.
La capanna è il casone dalla struttura in legno e ricoperto di paglia che spesso compaiono nei paesaggi pittorici del ‘500 già al tempo non esistevano più
Questa poetica rielaborazione, a fini di espressività pittorica, riguarda anche Jacopo Bassano (1515 ca-1592), che peraltro è tra gli artisti veneti del ‘500 il più attento nella documentazione del mondo contadino ed i cui paesaggi spesso raffigurano sullo sfondo la sagoma inconfondibile del Grappa.
A ben vedere, comunque, da questo gruppo di immagini si possono estrapolare alcuni elementi ricorrenti tipici del paesaggio veneto, due elementi edilizi che ancora lo caratterizzavano: la capanna rustica e la torre medievale.
La torre, quando non derivi direttamente dai prototipi grafici del nord Europa, è quella merlata che campeggia nella pala di Castelfranco di Giorgione, la torre di foggia trecentesca quale tuttora possiamo vedere al Castello di Padova, a Este, a Montagnana (la Rocca degli Alberi), a San Pelagio… E’ la torre che punteggiava fin dal XI secolo il territorio veneto (e non solo) marcandolo col segno del potere signorile.
La capanna è il casone dalla struttura in legno e ricoperta di paglia, l’infima abitazione del contadino, che però, come osserva Francesco Vianello, già all’epoca cominciava ad essere obsoleta, sostituita da strutture in muratura, più simili ai pochi casoni che sopravvivono per esempio nella zona di Piove. Entrambe le strutture, insomma, sono già alle soglie del ‘500 testimoni di un lontano passato, quasi emblemi sottratti al flusso del tempo storico e trasformati in simboli. Simboli, potremmo dire spingendo più avanti l’interpretazione, delle dinamiche economiche e sociali concretamente in atto sul terreno: la dialettica contrapposizione tra la massa dei contadini e i nobili proprietari terrieri, che però il ‘500 non vive come scontro di classe (neppure nelle veementi ed accorate denunce del Ruzzante). Sicchè, nei quadri nelle stampe e nei disegni, le due realtà convivono fianco a fianco in un armonioso abbraccio.
Foto di copertina: Giorgione (attribuito) Castel San Zeno a Montagnana 1501-02, sanguigna su carta conservata al Museum Boijmans va Buningen di Rotterdam