Tra veduta e visione. Paesaggi d’acqua e immagini urbane in Tono Zancanaro

Tono era conosciuto come l’artista che si recava nei luoghi, celebrato per la qualità documentaristica del segno, capace di fotografare la vita nella sua dimensione più dura e marginale: gli operai delle Reggiane, le mondine a Roncoferraro, i contadini della Calabria
Nel 1952 il primo premio per l’incisione alla Biennale di Venezia spetta a Tono Zancanaro, interprete di un vigoroso neorealismo tradotto in una singolare produzione espressiva. Spiccava nella prestigiosa rassegna il rarefatto paesaggio del Polesine, raccontato con sguardo quasi cinematografico in una serie di incisioni dedicate all’alluvione avvenuta l’anno precedente. Il ciclo nasceva a margine di un’esperienza diretta, che vedeva Tono nei pressi della rotta sull’argine del Po, come un reporter immerso nel suo lavoro in bianco e nero. Con pochi, rapidi tratti a carboncino o china l’artista restituiva la spoglia grammatica del dramma: sconfinati orizzonti d’acqua segnati dal profilo dei casoni abbandonati, senza giochi di riflessi, né profondità. Un paesaggio portato in superficie, evocato per segni essenziali attraverso il tratteggio veloce, secondo la poetica del non finito: la resa en plein air in Tono non corrispondeva affatto ad una mera pratica cronachistica, ma diventava invece una potentissima occasione evocativa.
Tono era conosciuto come l’artista che si recava nei luoghi, celebrato per la qualità documentaristica del segno, capace di fotografare la vita nella sua dimensione più dura e marginale: gli operai delle Reggiane, le mondine a Roncoferraro, i contadini della Calabria.

Mondine di Roncoferraro 1953 inchiostro su carta
Letta con il filtro ideologico – Tono si iscrive a 36 anni, nel 1942, al partito comunista – la sua arte era riconosciuta più che altro in termini strumentali alla retorica di partito. Si elogiava in particolare il “realismo”, quasi d’ossequio alla posizione intellettuale dominante del momento, ma non sempre si coglieva la natura fortemente immaginifica della sua opera: si apprezzava, per così dire, la copertina senza sentire il bisogno di leggere il libro. Una più completa lettura critica ha invece posto in evidenza come l’intera produzione di Tono Zancanaro sia continuamente attraversata da una potente vena surreale e dissacrante, culminata nella celebre invenzione del Gibbo, il celebre ciclo di satira politica, dettato da una fede profondamente antifascista.

Gibbo
Identificato presto con la caricatura morale e fisica di Mussolini, il “Gibbo” era un personaggio fantastico, un enorme animale deforme e lascivo, ispirato ad un film di John Ford visto alla metà degli anni ’30. La prima creazione, un bestione dal muso nero, nata 1937, negli anni della guerra di Spagna, viene perfezionata l’anno successivo, sempre sotto forma di creatura naturalistica. Il vero capostipite della serie è tuttavia riconosciuto nell’Angelo, un lottatore di circo visto a Bolzano nel 1939, rielaborato poi negli anni ’40, con la versione del ’42 ideata nella stanza d’ospedale dove Tono era ricoverato e da cui sarebbero stati tratti migliaia di fogli. Il “Gibbo”, vertice di una prorompente vena creativa, rappresentava per molti la tronfia retorica del regime, il simbolo di una società inquieta, la paura che si faceva ossessione: un’allucinata metafora dell’Italia sotto il fascismo. Era il mostro della fantasia, una sorta di maschera apotropaica dal valore liberatorio, un modo infine per esorcizzare il male dandogli una fisionomia concreta, per non lasciarlo forse vagare nelle ombre.
Tono e la vita presa dal quotidiano

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Tono attinge i suoi soggetti dall’icastico fluire della vita quotidiana – mondine curve sulle risaie, miserabili pensionati, sinuose donne del Prà – per trasformarli nei lucenti protagonisti di uno spazio simbolico, articolato in modo essenziale dalla violenza del chiaroscuro.Tono sapeva coniugare la verità di figure e luoghi, dalla fisionomia sempre riconoscibile, ad una graffiante esigenza poetica. Mezzo espressivo d’elezione era, non a caso, quello grafico. Egli amava il segno duro, quasi aggressivo, padroneggiato con sicurezza in molteplici declinazioni: dal disegno a carboncino alla china acquerellata e, soprattutto, la tecnica dell’acquaforte, rigorosamente sperimentata nel variegato repertorio di soggetti. Fra questi spiccano anche le nostre città murate, Este e Montagnana, presenti ad esempio nella collezione donata da Neri Pozza alla Fondazione Cini: vedute urbane mai pensate in termini di pura filologia, interpretate invece con acceso spirito visionario. Illuminazioni che andavano a fermarsi sulla carta, solo dopo che un’attenta riflessione l’aveva incisa e graffiata: il tratto segnico, così concepito, diventava un lavoro infinito della mente, essenziale atto di poesia.
Il ritratto urbano
Il ritratto urbano è parte viva della produzione di Tono, grande viaggiatore, che si accosta al genere con spirito critico, testimone di un disfacimento compiuto sotto i colpi della “guerra moderna” e ancor più di un formalismo burocratico, totalmente cieco alla bellezza. Aspra è la sua denuncia nei confronti della “lenta distruzione di Padova”, in un testo del 1980, dove l’artista depreca l’irreparabile danno subito durante le due guerre, ma più di tutto “l’inqualificabile” azione dei suoi stessi amministratori, autori di “distruzioni regolatrici”, che lasciano nel tessuto urbano ferite peggiori di quelle delle bombe, distruggendo bellezza e creando al suo posto anonime desolazioni.

la me vecia casa – china acquarellata realizzata nel 1956 – dimensioni mm 452 x 559
La polemica si fa forte nei confronti del “mastodontico croccantone”: il Palazzo delle Debite, realizzato in stile eclettico da Camillo Boito nel 1874, simbolico avvio di una disarmonica metamorfosi che avrebbe caratterizzato l’urbanistica padovana per tutto il secolo successivo. Ai “professionali rinnovatori di città a tutti i costi” ricordava la contraddizione tra lo sviluppo di una riflessione sul patrimonio artistico, culminato nella nascita “scientifica” del museo, con la funzione di preservare i valori materiali del passato, e la contemporanea distruzione dei valori urbanistici ed architettonici della città, che a quegli stessi valori aveva dato origine.

Lacromae rerum volga – inchiostro a tratto realizzato nel 1940 – dimensioni mm 308 x 330
La sua non è certo una posizione passatista: Tono Zancanaro è “pittore di grande umanità”, come lo ricordava Mario Rigoni Stern, ma era anche uomo dalla sensibilità contemporanea, attento alle dinamiche sociali e alla qualità della vita.La graduale aggressione al tessuto storico in un centro che appare comunque a Tono fra i più originali e severi del territorio italiano, resta motivo di una forte tensione, per sempre irrisolta. In essa vi riconosce la dissoluzione, ancor più grave, di un preciso sostrato sociale, di abitudini secolari e memorie personali. Per raccontare lo sventramento non si affida – come ci si aspetterebbe da un “realista” tout court, all’occhio fotografico, impietosamente oggettivo, ma ad una pagina quasi surreale, fatta di accumuli, spazi vuoti, presenze misteriose. A Padova, nonostante tutto, non smette di dedicare intensi brani della sua produzione: immortalata in una serie infinita di disegni, incisioni, ceramiche, la vecchia città non perde fascino. La sintassi di portici antichi, palazzi lunari, gigantesche cupole permane nell’intera produzione di Tono, ma in una forma quasi trasfigurata, irreale, persa nella solitudine delle vie: la città perduta viene recuperata nella visione.