Gioca con i fanti ma lascia stare i santi

Nel calendario rurale non è facile capire dove inizia la fede e finisce “la storia”, di mezzo c’è la magia, comunque sia in campagna anche i Santi si sono adeguati ai lavori pesanti
L’agiografia dei santi che abitano le valli, va al di là del culto che ad ogni santa aureola la storia e la fede hanno assegnato. Nel calendario rurale, infatti, non facile capire dove inizia la fede e finisce “la storia” e viceversa, fatto sta che in campagna anche i Santi si sono adeguati ai lavori pesanti. Un vero e proprio martirio: le intercessioni, le protezioni, i ritrovamenti ai quali nel tempo sono stati obbligati. Si pensi a Sant’Antonio incalzato dalle sequele di “sequeri”, a lui rivolti affinché aiutasse nella ricerca delle cose perdute: per ben tredici volte e senza interruzioni veniva recitata la formula “Si quaeris miracula, mors, error, calamitas, demon, lepra fugiunt, aegri surgunt sani. Cedunt mare, vincula, membra resque perditas… etc, etc”, poi accorciata dal mago Silvan in Sim-sala-bin. A parte gli scherzi è evidente che questo tipo di pratiche erano fuori dalla fede, come viene intesa oggi, a prevalere, invece, era l’aspetto magico.
Le religioni, del resto, hanno origine nelle culture pastorali ma raggiungono la loro completa espressione e grandezza quando l’uomo si ferma per diventare agricoltore e della terra ne fa il suo spazio vitale, il suo bene. Un bene tuttavia che dipende dai fenomeni naturali. A contatto con la natura e le sue manifestazioni, l’uomo contadino vive nel ciclo stagionale la lotta incessante tra le forze benefiche che danno la vita e le forze malefiche che hanno con sé la morte, la disgrazia, la fame, le malattie. Al di sopra di tutto c’è il tempo e sopra il tempo il Sacro, ossia l’intangibile, il non governabile, cioè quella parte della vita che pare agire in modo indifferente alla causa umana, come per impulso di una propria disposizione o umore. Le divinità pagane non a caso avevano caratteri propri, indoli e temperamenti che li rendevano riconoscibili nel Panteon, come a teatro si riconoscono i personaggi della commedia dell’arte attraverso la loro “maschera”. Una caratterizzazione che non è scomparsa nemmeno quando i protagonisti del Parnaso dovettero lasciare posto a quelli dell’Empireo cristiano, perché il cambiamento fu nei termini non nella sostanza e nemmeno nei metodi per ingraziarsi la loro disponibilità.
Il Sacro, ossia l’intangibile, il non governabile, quella parte della vita che pare agire in modo indifferente alla causa umana, come per impulso di una propria disposizione o umore
“La religione cristiana assimilò – nota Thomson – molti riti e credenze pagane preesistenti, perciò le chiese furono costruite su vecchie aree pagane, divinità locali divennero santi protettori, pozzi per guarire divennero pozzi santi. Molte superstizioni furono tollerate appositamente dal clero perché si pensava che servissero ad incrementare la devozione popolare. Inoltre la chiesa fu costretta a sviluppare una sua propria “magia” per poter rivaleggiare con quella che tendeva a sostituire”. Così si arrivò ad attribuire un’efficacia rituale fisica ad una vasta gamma di riti ecclesiastici ed esisteva un nutrito repertorio di esorcismi, e benedizioni concepiti per risolvere problemi di ordine pratico. Uno su tutti era, come si è detto, il tempo. Poter indovinare il futuro deve essere sempre sembrata la via più pratica per scongiurare rischi e sciagure o comunque a prepararvisi. E se nell’antichità classica l’attività oracolare veniva affidata a sacerdotesse e “pizie”, nell’antichità rurale il compito è stato affidato direttamente alle Sante: Bibiana, per esempio, “quaranta giorni e na’ settimana”, esprimendo la divinazione, o forse di più l’auspicio, che il tempo meteorologico del giorno della Santa, 2 dicembre, rimanesse lo stesso per più di un mese.

La vita di Santa Bibiana è avvolta nel mistero, esistono solo poche fonti e tutte inattendibili. Vissuta verso la metà del 300 d.C. venne arrestata perché cristiana, venne martirizzata attraverso flagellazione, il corpo della Santa sempre secondo la leggenda, venne esposto ai cani randagi, i quali lo lasciarono perfettamente illeso
Un po’ diverso il discorso per santa Lucia, 13 dicembre, per la quale il motto più perentoriamente recita: “Da santa Luzia el fredo cruzzia”, ossia principia la stagione del freddo intenso alla quale fa da termine un’altra santa, la Candelora (2 febbraio) che vorrebbe la fine della brutta stagione con la facile rima “dall’inverno sémo fora” e che si conclude, tuttavia, in modo induttivo ponendo un ma, ossia che se invece per la stessa data piove o tira vento dall’inverno “semo dentro”. Insomma è più aforisma che profezia e del resto i proverbi che impegnano i santi in funzione di “ferma date” letteralmente si sprecano: “San Bastian (20 gennaio) con la viola in man”, allude all’auspicio per l’arrivo della buona stagione già da questa data, come pure “Da Sant’Agnese (21 gennaio) el fredo core par le ciese e le marisandole (lucertole) par le sieve (siepi) oppure “Se sant’Antonio fa el ponte (cioè agghiaccia i fossi) San Paolo (25 gennaio) lo rompe.
I pastori svernanti nelle fattorie, quando la notte di S.Paolo il cielo appariva nuvoloso, bastonavano i loro cani
Il 25 gennaio era anche la data di una misteriosa festa, san Paolo dai segni. Si trattava dei segni interpretati agli effetti del presagio delle calende, ossia i primi giorni di ogni mese nel calendario lunare. Era una data popolarissima alla quale si legava un ricco corredo di pratiche superstiziose e magiche. I pastori svernanti nelle fattorie, quando la notte di S.Paolo il cielo appariva nuvoloso, bastonavano i loro cani. Essi infatti, più che il presagio delle calende dei primi 24 giorni di gennaio (12 di andata e 12 di ritorno) temevano le previsioni di quella notte, come ammoniva un detto popolare: “De le calende no me guro, pur che la notte de San Paolo no sia scuro”. Poveri cani, ma tuttavia nel mondo rurale tutto apparteneva al mistero, compresi gli animali perchè anch’essi, in varie forme, determinavano il destino degli uomini. In Polesine era comune la credenza che la notte di “San Bovo” gli animali si parlassero. I bovai se ne stavano nascosti e in ascolto presso le greppie per capire gli arcani segreti delle mucche. Pare, pure, che un bovaio fosse riuscito a raccogliere alcune parole, che ovviamente riportavano un triste presagio: “Ti bo da fora e ti bo da man cossa faremo doman? Se no savemo cossa fare menaremo el boaro a soterare”. Il bo da fora è il bue che nell’aratura cammina nel solco, mentre quello da man e quello che cammina sopra il solco e funge da guida. In quei giorni si facevano regali ai mandriani e questi concedevano una settimana di riposo alle bestie. Nella festa di san Bovo si facevano funzioni nelle chiese, seguite dalla benedizione degli animali sul sagrato; si benedivano le stalle, il fieno e il sale, di cui i contadini (in quel giorno) erano prodighi verso le mucche, si tratta evidentemente di significati cristiani attribuiti a pratiche pagane molto antiche.
Altro patrimonio che veniva affidato ai santi era la salute, alle benedizioni in talune circostanze si affiancavano riti di natura magica come nel giorno di san Biagio (3 febbraio) in cui la cerimonia della benedizione della gola avveniva con due candele accese in forma di croce. San Biagio non era il taumaturgo solo del mal di gola, a lui ci si rivolgeva per tutte le affezioni che colpiscono le vie orali: fauci, tonsille, ugola, e la stessa mucosa orale recitando, a digiuno e trattenendo il respiro, una sorta di cantilena anche questa, immancabilmente, dall’epilogo tragico: “San Biasio da le nove sorele – le nove, le oto – le oto, le sete – le sete, le sié – le sié, le zzinque – le zzinque, le quatro – le quatro, le tre – le tre, le do – le do, le una – san Biasio da le nove sorele, no ghe n’è restà gnanca una”.

A san Biagio, la cerimonia della benedizione della gola avveniva con due candele accese in forma di croce
E’ nella medicina del resto che si concentrano il maggior numero di pratiche collocate a metà strada tra fede e superstizione, quasi sempre in chiave divinatoria più che guaritiva. Nel rito del “pignatin”, ad esempio, impiegato nei casi di lussazioni o distorsioni, alla pratica del torcere e distorcere con forza la parte infortunata seguiva appunto il rito vero e proprio, adagiando in un pentolino di terracotta, dal fondo poroso, due pagliuzze in forma di croce versandovi dell’acqua e ricoprendo il tutto con una garza. Se l’acqua, dopo qualche tempo, fosse uscita dal vasetto l’ammalato sarebbe guarito, nel caso contrario i dolori sarebbero andati per le lunghe. A Stienta, fino a non molti anni fa, una donna guariva le persone dalle stesse afflizioni segnando col pollice destro la lesione, a mo’ di circolo, e quindi di croce, con l’aggiunta di due tratti trasversali, mentre ripeteva: “col nom di Dio e d’ santa Lò (Lucia), a liev sta torta, verta, serada ch’ la sia: col nom d’ la Vergine Maria”.