Il Ciosòto, una lingua che rimarrà viva
Renzo Cremona ha recentemente dato alle stampe la sua ultima fatica editoriale: Grammatica chioggiotta, pubblicata da Il Leggio Libreria Editrice di Sottomarina. Un lavoro durato più di dieci anni, sfociato in un’opera che trascende la mera codificazione ortografica del dialetto parlato per proporre un viaggio verso le opportunità che la lingua locale offre nel raccogliere e descrivere con precisione la vita dei luoghi che l’ha partorita
Dieci anni di lavoro speso nello studio e nella raccolta delle parole che assommate danno corpo ad una lingua. Nella fattispecie il Chioggiotto, il dialetto che al resto del Veneto suona diverso, unico, specifico di Chioggia e del suo stretto territorio. Ma perché scrivere una grammatica di ben 1344 pagine?
“Direi che innanzitutto vale la pena dire una cosa: prima di oggi non esisteva una grammatica del chioggiotto così come tuttora non ne esiste una del veneziano, che pure vanta una tradizione letteraria secolare e prestigiosa, o del padovano. Bisognava in qualche modo colmare questo vuoto. La spinta, però, a dare inizio ad un lavoro che sarebbe durato quasi un decennio, è venuta da Fossa Clodia e Lingua Madre, i miei primi due libri dedicati alla città di Chioggia pubblicati nel 2015 e nel 2017 rispettivamente, ma in gestazione da ben prima di allora. Mentre scrivevo, studiavo, leggevo, consultavo, e arricchivo il mio lessico, che era all’epoca eminentemente parlato, mi rendevo conto sempre di più del patrimonio linguistico sepolto che giaceva tra i nostri scaffali: bastava infatti aprire quell’opera immensa e splendida che è il Vocabolario del dialetto chioggiotto di Riccardo Naccari e Giorgio Boscolo, pubblicato nell’ormai lontano 1982 da Sandro Salvagno, per accorgersi di quanto e soprattutto di cosa avevamo perso. Espressioni bellissime, a volte addirittura poetiche, modi di dire curiosi e sbiaditi nel tempo e nella memoria, vocaboli antichi e più recenti tutti con un sapore squisitamente e genuinamente locale. Ma, ed è quel che è più importante, mi rendevo conto allo stesso tempo di come le cose in chioggiotto non fossero esattamente le stesse che avrei potuto dire in italiano; anzi, in molti casi ne sarebbe andata perduta una parte considerevole, quella dimensione e quel colore che appunto rendono il dialetto un mondo a sé stante. E più scrivevo, più scoprivo meccanismi di quello che fino ad allora mi erano rimasti semisconosciuti; più andavo avanti, più guadagnavo consapevolezza di come funzionasse la lingua che fino a quel momento avevo solo parlato, e comprendevo che offriva un’elasticità e una flessibilità a me ignote, una capacità di adattamento ed un potenziale creativo meravigliosi. Insomma: era uno strumento che ancora non era stato impiegato se non marginalmente, lasciato inerte, da conoscere strada facendo. Questo mi ha dato l’impulso ad approfondire, parallelamente, anche il puro aspetto linguistico, ed è così che è venuto l’appassionante lavoro sulla Grammatica chioggiotta. Che è ancora in corso, con modifiche e integrazioni quasi settimanali che non si sa ancora in che veste e quando vedranno la luce”.
Come hai raccolto i dati? Come è avvenuto il lavoro di raccolta?
“Per la lingua viva, che occupa buona parte del testo, non mi sono lasciato sfuggire neanche un’occasione: giravo con un taccuino per appunti e, se non avevo quello, scrivevo una nota sul cellulare appena sentivo un’espressione che ritenevo significativa o che calzasse alla perfezione per rappresentare un determinato funzionamento linguistico. Alle fermate del bus, sui mezzi di trasporto, per la strada, nel corso di chiacchierate con amici, parenti o anche sconosciuti, l’intento è sempre stato quello di registrare l’uso effettivo del dialetto in contesti di maggiore spontaneità possibile. Poi c’è stata, in contemporanea, la raccolta dei dati forniti dai documenti a me disponibili: dai manoscritti di fine Ottocento alle sillogi pubblicate nel corso del Novecento fino ad alcuni racconti e testi teatrali dei nostri anni. Un lavoro che poteva non avere mai fine: finché un giorno mi sono accorto che sempre più spesso cercavo di integrare con dati che erano già stati inseriti. A quel punto ho capito che potevo ritenere il lavoro complessivamente giunto ad un termine”.
La Grammatica chioggiotta presenta per la prima volta nella storia della lingua di Chioggia una sistematizzazione ortografica che permette di scrivere il dialetto senza incappare in licenze personali, errori ortografici e quant’altro accada quando una lingua non è normata. Ci parli di quella che chiami OCU? Qual è la necessità di un’unica ortografia per un dialetto?
“La codificazione del dialetto, come quella di qualunque lingua, parte dalla necessità di ricondurre tutto il corpus scritto ad un insieme di norme (deducibili dall’uso o formulabili da riflessioni volte a semplificarne l’impiego); queste norme servono poi a conferire stabilità e trasparenza alla lingua che a queste si impronta. L’aspetto che conferisce solidità e stabilità ad una lingua è senza dubbio quello ortografico: la forma scritta di una lingua supera gli scarti tra pronunce leggermente diverse, gli accenti più o meno ravvisabili nel vivo quotidiano, gli idioletti che rendono a volte così diverso un modo di parlare dall’altro; la forma scritta raccoglie invece, potremmo dire, sotto lo stesso tetto elementi che sfuggono nel parlato ad un’irreggimentazione che trova nelle norme ortografiche la sua realizzazione più visibile. Una lingua vive non solo se viene parlata, ma anche se lascia di sé tracce scritte che la tolgano dall’oblio, soprattutto se queste tracce scritte costituiscono l’esempio visibile della sua esistenza e della sua capacità di interpretare e organizzare il mondo, vale a dire il suo modo originale e proprio di essere su questo pianeta. Entro la fine del XXI secolo saranno scomparsi quasi tutti (se non tutti) i dialetti esistenti. Possiamo rassegnarci a questo o fare una riflessione che potrebbe condurre ad esiti differenti: in fin dei conti per molti il dialetto costituisce la chiave di lettura personale per leggere il mondo oltre a e insieme all’italiano”.
Qual è stato il ruolo dell’editore in questa operazione?
“È molto semplice: senza Sandro Salvagno, senza questo straordinario e visionario editore, il dono che è per tutta la comunità la Grammatica chioggiotta non sarebbe mai stato possibile né concepibile. Sarebbe, nella migliore delle ipotesi, rimasto chiuso nei miei cassetti, registrato nei miei file di archiviazione, sconosciuto ai più. Tutto qua. Quando dieci anni fa sono tornato nella sua libreria, il Leggio, e ho detto a Sandro che avrei voluto lavorare sul dialetto, ho acquistato mezzo scaffale di libri scritti in dialetto, altrettanti me ne ha generosamente forniti lui e lì abbiamo fatto un patto: io avrei scritto questa grammatica e lui l’avrebbe pubblicata. La seconda fortuna è stata poter lavorare con Caterina Salvagno, figlia di Sandro e Paola, braccio destro nella figura di co-editrice, la quale, assieme a Chiara Tovazzi di Q&B Grafiche, ha reso un testo ciclopico e potenzialmente pesantissimo un capolavoro di bellezza ed efficienza, arricchendolo persino di straordinarie stampe d’epoca. Senza loro questa Grammatica sarebbe stata quasi illeggibile”.
I dialetti locali, come hai detto tu: stanno per sparire. Forse lasceranno il posto ad altre forme linguistiche che saranno il risultato di più ibridazioni. Del resto la lingua è un metro che misura i luoghi, coglie le distanze spaziali, gli ostacoli, le separazioni, ma anche i contatti le reciprocità tra il qui e l’altrove. La lingua è materia che si contamina e trattiene le sembianze degli spazi in cui si esercita. Cambiando il paesaggio è inevitabile che cambi anche il modo di chiamarlo, se a Chioggia muore la pesca o muore l’orticoltura moriranno tutti i termini specifici preposti ad essi, ma anche il modo di descriverne la fatica, i pericoli o i sentimenti. Come si salva una lingua?
“È soprattutto necessario cambiare la prospettiva che si ha del dialetto, prospettiva che coinvolge anche gli insospettabili, cioè i parlanti stessi: finché il dialetto rimane relegato al ruolo di lingua meno elevata o, peggio, meno desiderabile del nostro sistema sociale e culturale, c’è ben poco da fare. In Lingua madre, che ho pubblicato nel 2017, viene messo in scena in un testo teatrale un dialogo tra il Dialetto e la Lingua, ciascuno dei quali all’Ufficio Visti espone le proprie ragioni di esistenza, senza peraltro che si arrivi alla formulazione della vittoria di una parte sull’altra; ebbene, in questa pièce il Dialetto mette in evidenza un aspetto non trascurabile dell’intera questione: che, cioè, tutto quello che si dice in vernacolo suoni basso, volgare, triviale e, diciamolo pure, “scomodo” perché questo gli è stato fatto dire finora, avendo preso le lingue ufficiali tutto lo spazio riservato ai contesti più prestigiosi. Ma non c’è nulla che dal punto di vista costitutivo lo renda inferiore ad una lingua ufficiale. Il suo lessico si è impoverito solo per sgretolamento e sovrapposizione, non perché le parole mancassero. E’ un dato di fatto che, in compresenza di più lingue, sia la varietà ufficiale o quella usata dai mezzi di comunicazione di massa a fare la parte del leone. Quello che preoccupa è la perdita dei tratti peculiari di una specifica codificazione del mondo che appartiene solo ed esclusivamente ad una varietà linguistica anziché a un’altra. Nel Medioevo, in Europa i “volgari” erano riservati alla comunicazione quotidiana e in contesti eminentemente pratici, mentre per quelli di maggior prestigio si impiegava il latino. Alla fine, però, hanno vinto i volgari. Quindi c’è ancora speranza che il chioggiotto possa essere utilizzato anche per la creazione scritta allargando i propri ambiti di pertinenza. Di recente un amico, ascoltando la traduzione in chioggiotto di Se questo è un uomo di Primo Levi, mi ha confessato candidamente di averla forse compresa veramente per la prima volta solo dopo averla goduta nella propria lingua. E si tratta di una persona tutt’altro che digiuna di letture e di cultura, anzi! Per cambiare prospettiva sul dialetto servono opere. Un po’ come diceva Madame de Staël agli inizi dell’Ottocento nella sua lettera agli italiani sull’importanza delle traduzioni: è dal confronto con altre lingue e dalla creazione di opere nuove che una lingua trae linfa vitale svecchiandosi e liberandosi dei consueti stilemi”.
L’arte salverà il chioggiotto?
“Se in chioggiotto impariamo a dire anche altro, si comincerà a non associare più il dialetto alle più basse e sgradevoli manifestazioni dello spirito, ma anche a queste inedite visioni del mondo. È anche per questo che da anni sono impegnato nella diffusione di testi e traduzioni in chioggiotto che tocchino qualsiasi registro: oltre a Levi ho tradotto autori moderni come Calvino, Pasolini, Pavese, Totò, Brecht, Fried, Kunert, Kunze, Kavafis, Ritsos, Dimulà, Botto, De Andrade, Pessoa, Lu Xun, Nordbrandt, ma anche antichi come Platone, Petronio, Quintiliano e Shakespeare. E il pubblico che d’estate viene ad ascoltare questo appuntamento annuale ha finora molto apprezzato questo genere di operazione culturale. La salvezza della nostra lingua è nelle nostre mani”.
Come la mettiamo con i giovani? E dai tempi di Cicerone e del Mos Maiorum che nelle generazioni a venire si vede il pericolo dell’abbandono dei costumi degli antenati
“In proposito mi conforta sapere e vedere che i maggiori acquirenti della Grammatica chioggiotta sono giovani: c’è forse un desiderio diffuso di riappropriarsi di quella che è la propria natura profonda, di ristabilire i nessi con quelle che sono le nostre radici, o comunque una parte di esse. Sono recentemente stato ospite, assieme all’editore Sandro Salvagno e all’amica e collaboratrice Santa Boscolo Caporale, della scuola Galileo Galilei di Sottomarina, dove siamo stati invitati dalla Dirigente Lia Bonapersona per presentare in due turni la Grammatica chioggiotta agli allievi di una scuola secondaria di primo grado. I ragazzi, coinvolti nella pièce Le paròle le fa busi (tratta da Fossa Clodia) e sensibilizzati da quella ad una riflessione sul valore e il peso specifico delle parole, hanno poi preso attivamente parte ad un gioco durante il quale hanno potuto mettere in campo le proprie conoscenze della lingua locale. Il feedback è stato a dir poco positivo, anzi: direi che è stato ottimo. Un lavoro concertato da parte della dirigenza e dei docenti assieme a noi esterni ha permesso di rendere visibile quanto sia sentita la questione linguistica e come questa interessi ai ragazzi molto giovani: segno che l’argomento tocca alcune delle loro corde, e che se il dialetto fosse ormai perduto per sempre, l’operazione avrebbe difficilmente avuto il successo che ha invece riscosso”.
Che progetti hai per il futuro? Continuerai ad occuparti del chioggiotto?
“Questa esperienza mi ha convinto ancora di più dell’opportunità di un progetto al quale io e Caterina Salvagno de Il Leggio Libreria Editrice di Sottomarina, ossia lo stesso editore di Grammatica chioggiotta, stiamo lavorando da qualche settimana e che vedrà la luce in autunno: la pubblicazione de El Principin, la prima versione in chioggiotto dell’opera di Antoine de Saint-Exupéry, che allo stato attuale è già in mano all’editore. Il piccolo principe non è solo il libro più tradotto al mondo dopo, si dice, i testi sacri, anche se su questo punto ho qualche dubbio: il libro dell’autore francese è stato tradotto in un numero incalcolabile di dialetti e lingue regionali in cui non credo sia stata tradotta la Bibbia o qualche altro testo analogo, ma anche un contenitore di eventi paradigmatici nella vita di un essere umano, quasi una raccolta di exempla, e quindi ben si presta ad essere utilizzato nelle scuole come spunto di riflessione su temi del tutto universali. È per questo che, in concomitanza con l’uscita del testo, avrà luogo un ciclo di rappresentazioni teatrali che vedrà coinvolti proprio gli allievi della scuola primaria e di quella secondaria di primo grado dell’IC Chioggia 5 (scuole Caccin e Galilei), ormai vero e proprio capofila in questa originale sperimentazione e proposta culturale. Abbiamo in cantiere anche progetti di sensibilizzazione alla lingua locale con laboratori di scrittura haiku in dialetto aperti a tutti gli allievi. Ma intanto ci aspetta molto lavoro sull’altro fronte. Ne riparleremo dopo l’estate”.
C’è una parola che salveresti tra quelle che hai incontrato durante il tuo lavoro?
“Tante, tantissime. Ma in questo momento voglio pensare ad una sola espressione, ormai quasi caduta nel dimenticatoio, e allo stesso tempo bellissima: rancùrite (o anche, nell’altra variante esistente, rancùrate). Deriva dal verbo rancurare, che significa “risparmiare, conservare”, e corrisponde all’incirca all’italiano “abbi cura di te stesso”. Mi piace come suona. È più bella del semplice e italianizzante stame bèn. Mi piace che il concetto alla base sia quello di non sprecare qualcosa di prezioso, di tenere in serbo qualcosa che si considera utile o buono; di tenere insieme, quasi, qualcosa che rischierebbe altrimenti di sparire, di disperdersi. In fin dei conti è tutto qua: cercare di conservare, portarsi appresso ciò che siamo stati lungo il percorso. È un bagaglio fondamentale per continuare a fare la strada che ci aspetta”.
Chi è Renzo Cremona
Renzo Cremona è un abitatore della lingua. Ha studiato cinese, neogreco, portoghese e georgiano presso l’Università di Venezia e lavora da anni come insegnante di lingua e civiltà cinese e come consulente linguistico. Traduttore di testi letterari dal cinese classico e moderno, dal neogreco, dal portoghese e dall’afrikans è anche un affermato scrittore e poeta. Sono numerose le sue pubblicazioni, tra le quali spiccano quelle dedicate a Chioggia: Fossa Clodia (2015; 2° Premio alla XVI Edizione del Concorso Nazionale di Poesia Vittorio Alfieri; Premio Istrana e Salva la tua lingua locale) e Lingua Madre (2017; Premio Tirafuorilalingua) e Grammatica chioggiotta (2023).