“La scoperta dei Colli Euganei” attraverso gli occhi di Adolfo Callegari
Un libro, ma anche un viaggio nel paesaggio, nella storia e nell’archeologia del territorio e anche nella consapevolezza di quanto poco lo conosciamo nel suo reale valore
“La scoperta dei Colli Euganei” è un titolo che può suonare strano: i colli sono sempre lì da migliaia di anni con le loro forme peculiari, con i coni dalle linee purissime, vere isole nella pianura, senza alcuna barriera che li mascheri. Eppure se si riflette sul rapporto tra i colli e la pianura circostante quell’espressione appare pienamente giustificata. Basti considerare che per la città e per i paesi limitrofi i colli sono stati fino all’età moderna una specie di confine, un luogo selvatico, rifugio di eremiti e uomini pii. Tra Sette e Ottocento diventano campo di esplorazione per botanici e geologi, ma solo tra Otto e Novecento diventano meta del cittadino che ama passeggiare o cerca un luogo di villeggiatura. È l’epoca in cui i colli sono oggetto di studi sempre più frequenti e approfonditi che ne affrontano i più vari aspetti: geologia, botanica, storia, arte, paesaggio, società.
Il contributo più significativo alla conoscenza e alla sensibilizzazione sui problemi degli Euganei fu offerto da Adolfo Callegari, un borghese padovano che, ripercorrendo a sei secoli di distanza lo stesso itinerario di Francesco Petrarca, lasciò la città del Santo per fissare la sua dimora ad Arquà. Molti ricordano ancora la sua fortunata Guida uscita nel 1931 e più volte ristampata, pochi conoscono gli scritti raccolti ne “La scoperta dei Colli”, usciti tra il 1923 e il 1943 su varie riviste, tra cui alcune prestigiose come “Dedalo” e “L’illustrazione italiana”. Sono articoli ancora attuali. Si vedano ad esempio quello sul Cataio, per il quale oggi finalmente sembra profilarsi un progetto di rinascita da seguire con attenzione e da incoraggiare, o quello sul colle della Rocca, che ancor oggi è minacciato da idee bislacche, foriere di ulteriori irreparabili guasti. Il profilo storico del bene culturale preso in esame da Callegari nei suoi scritti non si esaurisce mai in mera erudizione. Si intreccia sempre con considerazioni che attengono alla sua conservazione. Si aggiunga inoltre che quasi tutti gli articoli si leggono con gusto anche oggi in ragione di una scrittura briosa che in qualche caso attinge pregevoli qualità letterarie. Laureato in legge, Callegari era un intellettuale poliedrico nel quale la passione per la pittura si sposava con l’amore per l’archeologia e la storia dell’arte. Inoltre non disdegnò l’impegno politico-amministrativo: prima come sindaco di Arquà, poi come segretario del Fascio estense. Visse immerso nei colli per almeno un trentennio, facendo del mondo euganeo, con i suoi problemi e le sue meraviglie, il centro della sua riflessione e del suo lavoro culturale. Non frequentò solo i luoghi in cui viveva e lavorava. Esplorò tutti i rilievi con curiosità e metodo tanto che poteva affermare di “conoscerli in ogni angolo”. Se ne innamorò al punto che diventarono, è lo stesso Callegari a dirlo, parte della sua anima. Callegari riconobbe i progressi fatti negli ultimi decenni, ma individuò lucidamente i ritardi accumulati nella conoscenza del mondo euganeo e intuì i gravi rischi che i colli e il loro patrimonio storico-artistico e paesaggistico stavano correndo a causa della devastazione prodotta dall’attività estrattiva con i nuovi mezzi meccanici e a causa dell’incuria in cui versavano troppi monumenti.
Era profondamente convinto che gli abitanti dei colli, come quelli della provincia, ben poco sapevano del gruppo collinare e non avevano consapevolezza del valore del patrimonio artistico e naturalistico. Aspri furono i rimbrotti indirizzati ai monselicensi. Accusati di trattare il loro colle più prezioso, quello della Rocca, come un intrigo, un impiccio di cui era meglio fare a meno: «Monselice possiede cose bellissime, e non lo sa. O non se ne cura. È doloroso: ma se una mattina, aprendo la finestra, i monselicensi sentissero in faccia il primo sole senza l’uggia della Rocca, direbbero: “Benon, un intrigo de manco”». Il colle era “mutilato, irriconoscibile”, perché porte, chiese, torri, cortine, negli ultimi quarant’anni “cedettero al piccone”. I monselicensi, rincarava la dose Callegari, non guardano in alto e dunque non vedono la devastazione in atto. Non meno severe erano le critiche rivolte ai padovani. Non hanno saputo scoprire i tesori dei colli, argomentava il nostro, perché sono abituati a fermarsi ai bordi del versante settentrionale, quello più vicino a Padova. Sostano alle prime trattorie che incontrano, quelle di Teolo o di Torreglia. Oltre non si spingono e hanno torto, insisteva Callegari: non si rendono conto del patrimonio di arte e storia che hanno a portata di mano. Se penetrassero nel cuore dei colli, se si addentrassero anche nei più piccoli villaggi, si accorgerebbero che dovunque si incontra un monumento pregevole: una villa, un castello, una chiesa. Ma lo sguardo non doveva limitarsi alle emergenze storico-artistiche. Ad Arquà, ad esempio, la visita non doveva avere come meta solo i monumenti petrarcheschi: la fontana, la tomba, la casa del poeta. La memoria del Petrarca non andava cercata solo nei monumenti, ma anche nel paesaggio.