Dalla campagna del XVII secolo: lavoro, rapporti sociali e cura delle anime
L’arrivo della famiglia veneziana dei Grimani a Masi porta alla nascita di un piccolo centro, alla costituzione di una società e alla necessità di assolvere al suo bisogno di partecipare ai riti religiosi
Nel 1570 una “cordata” di nobili veneziani, con a capo la potente famiglia Grimani, acquista dalla Serenissima Repubblica i campi posti “in territorio Villa Mansorum districti Castribaldi” del defunto Pietro Michiel, nipote di Bartolomeo Michiel da Castelbaldo, che li aveva acquistati nel 1417 dalla stessa Repubblica all’indomani della caduta della Signoria carrarese, dopo che il Senato Veneto decise di liquidare i residui delle proprietà dei defunti signori padovani sparsi nel territorio. Si trattava di una grossa porzione di campagna situata oggi nella frazione delle Colombare di Masi, nel padovano, ancora identificabile grazie alla presenza del complesso San Felice, ossia una grande azienda agricola con annesse pertinenze e oratorio, che continua ad essere un punto di riferimento nel paesaggio tra Adige e Fratta. Nel panorama del 1570, però, ancora non c’era, gli stesi Grimani lo faranno costruire al termine del secolo successivo per sopperire alle necessità spirituali di tutte quelle persone a cui la loro campagna aveva iniziato a dare lavoro.
Con la metà del XVI secolo, infatti, siamo negli anni della grande espansione veneziana in terraferma, gli anni delle bonifiche e della messa a coltura delle nuove terre retratte dalle acque. Anni in cui la disponibilità di campi buoni da seminare aumenta e di conseguenza la richiesta di manodopera, facendo lievitare anche il numero della popolazione, e il centro rurale messo in piedi dalla famiglia veneziana non fa eccezione. Con la presenza dei Grimani Masi conosce un forte incremento durante tutto il XVII secolo. Pian piano, quindi, si creano i presupposti di una vera e propria economia rurale, incentrata sul piccolo centro di San Felice dove oltre ai fabbricati deputati al ricovero degli animali e degli attrezzi e ai granai per lo stoccaggio del raccolto, iniziano a trovare posto le abitazioni dei coloni che vi lavoravano. La lettura dei contratti d’affitto per gli anni che vanno dal 1637 al 1678, ci permette di comprendere quali rapporti intercorressero tra chi possedeva la campagna e chi la rendeva produttiva. Escludendo l’unico contratto decennale, gli altri sono compresi fra uno a cinque anni, con possibilità di subentro di parenti o soci. Il contenuto degli accordi è sempre lo stesso: il nobile Grimani, nella persona del suo fattore (il più citato è Tomio Parisato) o di chi in quel momento ne fa le veci, concede ai coloni, l’uso di terre, campi, valli, pascoli, in cambio del pagamento dell’affitto da corrispondere parte in denaro e parte in natura, oltre all’obbligo della bonifica e del mantenimento in buono stato dei campi, valli e pascoli concessi.
Alcuni documenti richiamano l’attenzione ai possibili casi di tempesta o rotte dell’Adige. In quel caso il proprietario, richiamandosi agli statuti del Comune di Padova in vigore, si impegna a valutare i danni e ad andare in contro alle necessità dei coloni. Questi ultimi, laddove indicato, sono di Masi, uno di Villa Bona (l’attuale Villa d’Adige), oltre ai pastori dell’altopiano di Asiago, che con contratti stagionali da Ottobre ad Aprile, passavano l’inverno nelle pianure per poi rientrare in altura durante l’estate. In particolare, si nota la presenza costante per gli anni dal 1674 al 1678 dei fratelli Zamaria e Giacomo Gheller dell’Altopiano di Asiago. La famiglia Gheller è tutt’ora una delle più antiche famiglie di Foza Vicentina. Il cognome, di origine cimbra, significa: “coloro che provengono da Gallio” e mantennero l’antica provenienza come patronimico anche una volta stabilitisi a Foza.
Pietro Grimani decise di far costruire una piccola chiesa ad uso del popolo intitolata al Beato Felice da Cantalice cappuccino e alla Vergine Maria
E per tornare alla nostra campagna tra Adige e Fratta, la forte concentrazione di famiglie,[4] che era andata costituendosi, diede vita ad un vero e proprio paese lontano circa 3 chilometri dallo storico centro abitato di Masi e dalla sua parrocchia. Ovviamente le distanze vanno lette con gli occhi di allora. Considerando che le strade in certi periodi dell’anno quasi non esistevano e i mezzi di trasporto erano gli animali, tre chilometri da percorrere non dovevano essere pochi. Per queste famiglie, raggiungere la chiesa per le funzioni non era affatto facile. Fu così che alla fine del XVII secolo (Andrea Gloria precisa l’anno 1694[5]), Pietro Grimani decise di far costruire una piccola chiesa ad uso del popolo intitolata al Beato Felice da Cantalice cappuccino e alla Vergine Maria.
Nel 1702 chiese fosse istituita parrocchiale proprio adducendo l’argomento della distanza dalla parrocchia di San Bartolomeo e le pessime condizioni delle strade, ma non ottenne il permesso. In una lettera del 1708, un incaricato del nobile Grimani, gli comunica di essere riuscito ad ottenere dal vicario foraneo: “che per quest’anno non s’opponga alla celebrazione della messa nel giorno solenissimo della Santa Pasqua nel privato oratorio di Vostra Eccellenza, quando vi sia l’accennato pericolo, che la distanza dalla parrocchiale e le male strade presenti possino impedire gl’abitanti di quel vicinato dall’adempimento del precetto d’ascoltarla”, ricordandogli inoltre: “Per altro, come tutti gli oratori privati, o siano entro alle case […] ò […] per quelli che son fuori dalle case con porta sopra la pubblica strada, portano la restrizione impeditiva per i giorni delle maggiori solennità[…], così il Vescovo non può dispensare sopra così giusta limitazione, non da lui, ma dalle sacre costituzioni proveniente, se non in caso d’urgenza presentanea, e cognita causa. Potrà l’E.V. rendersi assicurata di ciò solo col rivedere la concessione ottenuta […] per cotesto suo oratorio de Masi, dalla quale saranno certamente escluse le giornate più solenni di Pasqua e Pentecoste, che dall’autorità del Vescovo non potevano essere permesse”. Viene negata quindi, la possibilità di esecuzione delle funzioni più importanti, che dovevano essere svolte nella chiesa principale del paese.
Tuttavia il piccolo oratorio funzionò a pieno regime in tutti i giorni rimanenti e le attenzioni rivolte dalla famiglia Grimani al piccolo sacello, anche in termini economici, ci informano dell’importanza della fede anche nel stringere rapporti tra il signore e i popolani. In un punto del testamento di Pietro Grimani, infatti, veniamo a sapere quali erano le attività che si svolgevano: “…ho fatto celebrare ogni giorno la s. messa e due nelli giorni festivij per comodo maggiore di quel popolo; pubblicar con l’assenso del parroco le feste e vigilie che cadono fra la settimana, insegnar dopo pranzo la dottrina cristiana, recitar una parte di rosario con le litanie et il venerdì la corona del signore in quell’ora che il cappellano ha creduta più comoda per il maggior concorso del popolo…”. Lo Stato inoltre, obbligò Pietro Grimani a mantenere l’oratorio nella privata proprietà e a sottoporlo al pagamento delle gravezze ordinarie e straordinarie. Tuttavia, proprio riconoscendo la funzione sociale che svolgeva, il Senato concede con decreto dell’11 Agosto 1720 a Pietro Grimani la possibilità di istituire delle rendite per il mantenimento in perpetuo della chiesetta e dei sacerdoti che vi officeranno le funzioni religiose, sempre con l’obbligo di dichiarare gli incassi e di pagarvi le tasse che Venezia richiedeva.
Federica Guerra