Il paesaggio prima del mais

Un estimo dei beni dei nobili e del clero rodigino del 1411 restituisce un ambiente tutt’altro che selvatico. La campagna era già avviata all’orticoltura e alla coltivazione dei cereali, già presente era la vite e le parti incolte erano una sorta di welfare state per gli strati più bassi della società del tempo
Gli storici del paesaggio stanno rivedendo alcune valutazioni mutuate dal Positivismo ottocentesco, riguardanti l’economia delle pianure alluvionali e di una terra inselvatichita, ritornata ovunque selvaggia dopo la fine dell’Impero romano. Un contributo importante, nel relegare a palude le nostre terre, lo ha dato anche Venezia: dopo il 1404 quando il Leone di San Marco posò definitivamente le sue zampe sulla terra ferma padovana e più tardi, nel 1509 dopo la guerra della Lega di Cambrai, quando tra gli artigli cade anche il Polesine, il quadro che gli storici del tempo danno del territorio è totalmente desolante, come, come se Cristo si fosse fermato sul Brenta. Ma del resto tanto più crudo, miserando e cupo fosse stato il paesaggio prima di Venezia, tanto più benefico, dolce e foriero di prosperità sarebbe stato il suo governo. In parte, dunque, sono tangibili elementi della propaganda, ma tuttavia non era del tutto incongruente con la realtà. Altri racconti sulla natura del territorio derivano da cronache più remote, come nel caso del “Mandiburdium protectionis”, l’atto del 1054 col quale Enrico III accorda protezione ai beni del vescovo di Adria, cioè alla “Curte quae dicitur Adriana”, dove l’Imperatore specifica che tal protezione vale per borghi e ville ”cum aquis, terris, silvis, ripatico, teloneo, salinis” e dal quale si evince, appunto, un territorio di gorghi, boschi, paludi, selve oscure che insidiavano esigui appezzamenti coltivabili, aggrappati ad impaurite e solitarie ville, prossime ai fiumi, tra le quali si stagliavano le numerose torri di guardia per i capitani deputati alla custodia dei passi. In un ambiente così primitivo le leggi si dovevano preoccupare delle liti violente che scoppiavano nelle grandi boscaglie fra i pastori: era facile sconfinare con i greggi di animali nella proprietà di un altro, e allora si può immaginare cosa accadesse fra chi conduceva al pascolo i porci o le pecore. Il senso della proprietà privata non era ben chiaro e quelle persone soprattutto quando si trattava di terre incolte che la natura sembrava offrire libere all’uso di tutti. I confini erano segnati su alberi, indicati da grossi sassi piantati nel terreno o situati lì da tempo senza che nessuno ce li mettesse: era agevole, e pericoloso insieme, spostare tale indicazioni da una parte all’altra, o addirittura togliere di mezzo il segno naturale del confine o strappando dalla terra la pietra. Se era un servo a farlo, poteva incorrere nella pena di morte. Forse anche questa descrizione dei luoghi, serviva all’Imperatore per giustificare la propria “longa manus”.
Nel governo longobardo, la cui politica era più dedita al “palazzo” piuttosto che “polis”, l’economia dell’incolto deve essere considerata come una specie di “welfare state”, che garantiva anche alle fasce meno abbienti della società di procurarsi il necessario per vivere
Ma come doveva essere, dunque, il paesaggio nei secoli passati?
Sicuramente con l’aprirsi del Medioevo le bonifiche vennero abbandonate e si assistette ad un generale impaludamento, anche per fenomeni di bradisismi negativi, venne a scomparire il reticolo viario ed il graticolato romano. La terra coltivata doveva essere alquanto modesta rispetto agli spazi incolti, la vegetazione avanzava impadronendosi di villaggi un tempo abitati o coprendo ruderi di antichi manufatti, quali i ponti che, materializzandosi improvvisamente agli occhi dei viaggiatori, per la loro ardita costruzione arcuata inducevano a credere che fossero opera demoniaca, perciò detti “Ponti del diavolo. Il progressivo abbandono di un territorio organizzato fu favorito anche dalle nuove popolazioni discese dal Nord durante i primi secoli dell’Alto Medioevo. Queste, infatti, erano portatrici di un diverso modello di sfruttamento del suolo che va sotto il nome di economia dell’incolto: Un ambiente semi selvatico, dunque, costituiva il mondo degli uomini del secolo VI e VII, dove, però, non mancavano le risorse ad una popolazione assai ridotta nel numero: caccia, pesca, allevamento brado, frutti spontanei delle piante erano un notevole mezzo di sostentamento, insieme ad un’agricoltura ancora in via di affermazione. Nel governo longobardo, la cui politica era più dedita al “palazzo” piuttosto che “polis”, l’economia dell’incolto deve essere considerata come una specie di “welfare state”, che garantiva anche alle fasce meno abbienti della società, ossia la maggior parte degli uomini vissuti dalle nostre parti al tempo, di procurarsi il necessario per vivere. Dunque per i secoli più bui del Medioevo è giusto parlare di una terra non organizzata ma non per questo priva di quegli elementi che garantivano alle società di prosperare, seppur nell’ottica dell’arrangiarsi. Il ritorno a forme di governo del territorio si ebbe attorno al Mille, quando in seno alla maturata necessità di una maggiore decentrazione del potere nell’Impero carolingio, le cui frontiere abbondantemente travalicavano i confini nazionali di stati e paesi, iniziò una politica di riordino sotto l’egida dei monasteri e di quelle famiglie che più tardi portarono alla nascita delle signorie. In tal senso, un nome su tutti va ricordato per le nostre latitudini: quello degli Estensi.
E’ in questo periodo che riprendono i lavori di bonifica e di organizzazione delle campagne, spesso grazie all’opera dei monaci Benedettini, facilmente riassumibile nel motto “ora et labora”. Un lavoro importante, tanto che a partire dal XIV secolo gli archivi ci offrono notizie maggiormente certe sulla natura del suolo, del paesaggio agrario e della disponibilità delle risorse. In un estimo dei beni dei nobili e del clero rodigino del 1411, situati nelle ville di Lusia, Ramedello, Costa, Fratta, Gognano, Villamarzana, Arquà, Sarzano, Mardimago, Villadose, Canale, Ceregnano, Buso, Sant’Apollinare, oltre naturalmente che a Rovigo, le proprietà appaiono in gran parte coltivabili con una bassa percentuale boschiva. Certamente si tratta di terreni appartenenti ai nobili e al clero, e perciò maggiormente fertili perché più alti e di più antica emersione, che però ci danno una immagine del territorio, simile a quella dell’Italia padana, ove la bonifica non era riuscita a conquistare tutti i suoli disponibili, perdurando larghe fette vallive sottoposte a inondazioni periodiche. Prendendo in esame l’estimo, pur con il beneficio del dubbio, si desume che il 10% del totale delle terre è composto da valli, parte delle quali è classificata come “vallis piscaricia”. La maggior parte delle valli si trova lungo la direttrice dell’Adige, dell’Adigetto e del Polesine centrale, anche se dobbiamo pensare che data la natura del terreno valli si trovassero in misura diversa anche in altre ville. Il 2% risulta adibito a bosco; è il caso di dire coltivato a bosco perché vi sono compresi le “pezze” occupate dalle salgarede, dai saliceti nei cosiddetti “boschi di sponda”. Una terza piccola percentuale, il 5% sul totale dei campi risulta costituita da terre “sablonive”, che rimarranno una costante nel paesaggio dell’Adige. Si tratta di sedimenti di straripamenti e alluvioni oppure residui di corsi d’acqua esauriti che hanno lasciato traccia del proprio alveo. Fra le terre incolte sono da rilevare quelle destinate a prato e pascolo: 235 campi, il 10%, sono prativi, un secondo 10% circa, 213 campi, sono pascolivi, sottolineando che in parecchie possessioni di nobili e di enti ecclesiastici non figurano. Sono possedimenti alquanto piccoli e quindi è da supporre che, se la conformazione de terreno lo consentiva, fossero per evidenti motivi, destinati a grano. La rassegna prosegue con un 1% di “terre guastive” e di “terre basse” che designano terreni sottratti all’agricoltura perché invasi dalle acque e, nel migliore dei casi, destinate alla pastorizia. Lo spazio coltivato nel nostro estimo occupa il 55% del totale con 1514 campi, la maggioranza dei quali, vale a dire 1348, vanno sotto la denominazione generica di terre aratorie. Infine, i restanti 130 campi per una percentuale del 12% sul totale sono occupati dalla vite. Se nell’alto Medioevo la vite era coltura specializzata presente in appezzamenti a sé stanti, circondati da fossati e siepi, clausure, per misura difensiva; nel basso Medioevo, si ha diffusione della coltura promiscua con “l’affacciarsi di quel sistema che diverrà poi la piantata padana”, come risulta da numerosi atti, “…una Possessione, che lavora Battista Buia con tre case di canna cum Curtile, Horto, Arra, Pozzo, et Forno cum miara quatro, vel circa de Vigne, et certi pergolati…. La vite radicava il colono alla terra e ne incentivava l’attaccamento, in un mutuo rapporto d’interesse tra locatore e locatario. I proprietari, laici o ecclesiastici, obbligavano perciò alla coltivazione della vite, a mantenerne intatto il numero fornendo essi stessi le piante. La contrazione dell’incolto, pertanto, non fu drastica, anzi le risorse silvo-pastorali continuarono a coesistere e a svolgere una funzione fondamentale nell’alimentazione ed essere parte integrante del paesaggio anche perché i mezzi a disposizione per le bonifiche non bastavano da soli a ridurne in modo determinante la superficie. E nemmeno c’era la volontà: la “distruzione dell’incolto non ebbe quel carattere generalizzato che troppo spesso le si è voluto dare; al di là di certi limiti i colonizzatori medievali non andarono – non vollero andare; né avrebbero avuto i mezzi per farlo: stiamo attenti per a non scambiare per “medievali” fenomeni di distruzione sistematica dell’incolto che datano assai più vicino a noi”.