La tomba di Dante, opera veneziana

Il 14 settembre 2021 è ricorso il settimo centenario della morte di Dante. E’ ben noto che il poeta, esiliato da Firenze nel 1302, dopo aver peregrinato tra Toscana, Emilia e Veneto, trovò infine riparo presso i Da Polenta, signori di Ravenna, e qui morì, di malaria, al ritorno
da un’ ambasceria a Venezia.
Il suo corpo fu posto allora in un’ arca marmorea (forse uno dei tanti sarcofagi tardoromani che si trovavo in città), collocata in una cella posta all’esterno del chiostro del monastero francescano: forse, Guido Novello si proponeva di erigere in seguito un degno monumento, ma pressanti eventi politici e la sua morte che seguì poco dopo ne impedirono la realizzazione; e solo nel 1483 venne edificata una cappelletta con un nuovo allestimento del sarcofago. Promotore dell’ iniziativa fu il veneziano Bernardo Bembo (1433-1519). Dal 1441, infatti, Ravenna era sotto il dominio di Venezia (e vi rimarrà fino al 1509, anno della disastrosa battaglia di Agnadello, per entrare poi a far parte dello Stato della Chiesa).
Bernardo Bembo rappresenta la classe dirigente della Repubblica veneta di quei secoli: un equilibrio perfetto tra solidi interessi culturali e maneggio della cosa pubblica
A scadenze regolari Venezia inviava i suoi podestà a reggere il governo cittadino e nel 1482 vi era stato designato appunto il Bembo, che incaricò Pietro Lombardo, con la probabile assistenza del figlio Tullio, della realizzazione del mausoleo. Il Lombardo (di origini ticinesi come indica il cognome) era all’epoca un noto scultore ed architetto che aveva iniziato la sua attività a Padova dove realizzò il bel monumento Roselli al Santo e dove il suo atelier influenzò profondamente l’ architettura locale, con i suoi motivi decorativi classicheggianti, sia in edifici a lui riconducibili direttamente, come casa Miglioranza e Casa Olzignano, che nella più generica edilizia lombardesca diffusa anche in provincia tra Monselice e Montagnana.

Hans Memling: presunto ritratto di Bernardo Bembo
Verso il 1470 era approdato in laguna, dove realizzerà in seguito la Chiesa di S. Maria dei Miracoli e la facciata della Scuola di San Marco. Della cappelletta da lui realizzata a Ravenna non rimangono che delle testimonianze grafiche: l’ edificio fu oggetto di intervento di restauro nel ‘600 ma lo stato di
precaria conservazione in cui versava convinse infine il legato pontificio Luigi Valenti Gonzaga a sostituirlo con l’attuale tempietto, realizzato tra il 1780 e il 1782 su progetto di Camillo Morigia. Resta però l’allestimento quattocentesco sulla parete di fronte
all’ingresso: all’interno di un’arcata classica in marmo bianco venato, con inserti di marmo rosso africano, è contenuto il sarcofago sulla cui facciata lo scultore finge inchiodato un panno che riporta un’epigrafe latina in versi (dettata dallo stesso Dante secondo una
tradizione accolta dal Bembo, probabilmente invece di Bernardo Canaccio, essa allude polemicamente a Firenza, “madre di poco amore”). Al di sopra, sullo sfondo di marmo rosso, un bassorilievo in pietra raffigura l’ Alighieri assorto nella lettura, il capo cinto di
alloro. L’iconografia del Poeta, più che rifarsi ai prototipi trecenteschi, appare aggiornata sui modelli fiorentini quattrocenteschi, che propongono una coloritura più intellettuale ed umanistica di Dante, più discepolo di Virgilio che cantore di Beatrice, come sarà poi nel
ritratto raffaellesco delle stanze vaticane.
Nella lunetta superiore dell’arcata lo stemma del Bembo, un ramo d’ alloro intrecciato con una foglia di palma col motto “Virtuti et Honori”.
Fu forse su sollecitazione degli amici toscani che nel 1476 tentò invano di convincere la Repubblica a concedere la traslazione delle ossa di Dante a Firenze

Il gossip del tempo riporta la relazione dei Bernardo Bembo con la bella e virtuosa Ginevra de’ Benci che culmina, secondo alcuni critici, nella commessa a Leonardo da Vinci del suo celebre ritratto, che oggi si trova alla National Gallery di Washington
Non è escluso che della decorazione prevista inizialmente facesse parte anche una lastra, sempre in pietra, raffigurante una Madonna con Bambino che, nella parte inferiore, porta anch’essa lo stemma di Bernardo, poi destinata alla villa padovana dei Bembo a S. Maria
di Non (a Curtarolo, nota come Nonianum) ed oggi in collezione privata. Val la pena, a questo punto, soffermarsi sulla personalità di Bernardo Bembo, che non è solo il padre di Pietro, il più influente letterato del ‘500. Egli rappresenta infatti, al suo meglio, la classe dirigente della Repubblica veneta di quei secoli, in un equilibrio perfetto tra solidi interessi culturali e maneggio della cosa pubblica.
Destinato dalla nascita, in quanto patrizio, ad entrare nell’amministrazione dello Stato, egli inizia addottorandosi a Padova in filosofia e poi in giurisprudenza. E’ ambasciatore a Siviglia presso Enrico di Castiglia (1468-69), a Bruges presso il duca di Borgogna Carlo il
Temerario (1471-74), a Firenze presso Lorenzo il Magnifico (1475-76 e poi 1478-79). E’ podestà a Ravenna, come abbiamo visto, quindi ambasciatore a Roma, podestà di Bergamo, avogadore di Comun, membro del Consiglio dei Dieci, ambasciatore a Ferrara, podestà di Verona, oratore straordinario presso Luigi XII a Milano, di nuovo ambasciatore a Roma presso Giulio II.
Parallela alla brillante carriera politica corre anche un’intensa vita intellettuale, di cui sono testimonianza sia dei preziosi codici che gli appartennero, spesso annotati di sua mano (Virgilio, Livio, Terenzio, Dante, Petrarca ma anche Vitruvio e Leon Battista Alberti – segno
dei suoi interessi per l’architettura), sia le attestazioni di stima ed amicizia di molti umanisti contemporanei: da Ermolao Barbaro ad Agnolo Poliziano, da Cristoforo Landino (autore di un Comento sopra la Comedia di Dante) a Marsilio Ficino, a Giovanni Pico della Mirandola. Con molti di loro intrattenne rapporti diretti durante i soggiorni in qualità di ambasciatore a Firenze, Roma e Ferrara e fu forse su sollecitazione degli amici toscani che egli, nel 1476 tentò invano di convincere la Repubblica a concedere la traslazione delle ossa di Dante a Firenze. Bernardo, in quest’ ultima città in particolare, godette di un grande successo personale: non solo era di bell’aspetto (un suo probabile ritratto, firmato da Hans Memling, ad Anversa, ce lo mostra alla soglia dei 40 anni) ma anche di modi eleganti e disinvolti.

Incisione del sec. XVII, con la veduta della tomba di Dante eretta
da Bernardo Bembo
Univa la gravità dello studioso alla leggerezza mondana della persona adusa alle corti, amava la poesia ma inseguiva la sapienza, era accorto negli affari quanto apprezzava lo scherzo. Proprio a Firenze egli intreccia una relazione (intensa ma probabilmente platonica) con la bella e virtuosa Ginevra de’ Benci che culmina, secondo alcuni critici, nella commessa a Leonardo da Vinci del suo celebre ritratto, che oggi si trova alla National Gallery di Washington. Un forte indizio a sostegno dell’ ipotesi è il fatto che
sul retro della tavola appare lo stemma del Bembo (palma ed alloro che qui abbracciano un ramo di ginepro, in omaggio al nome di Ginevra); di più, un esame a riflettografia infrarossa ha fatto emergere, sotto il motto che oggi si vede (Forma virtutem decorat – la
bellezza è ornamento della virtù) il noto motto bembiano “Virtus et Honor”.
Per tornare, in conclusione, alla storia della tomba o meglio delle ossa di Dante, ci è già capitato ad accennare ad uno dei tanti tentativi fatti dai fiorentini di riportare in patria i resti del poeta. Nel 1519 Papa Leone X, un Medici, pressato dai concittadini (tra i quali un
Michelangelo ansioso di erigere un monumento degno della grandezza di Dante) intima ai francescani ravvenati, custodi della tomba, di consegnare le ossa ad una delegazione fiorentina ma quando questa scoperchia il sacorcofago lo trova vuoto. I frati, infatti,
praticando un foro nel muro (indicato ancora da una lapide), dal loro chiostro erano penetrati nottetempo fino alla tomba e ne avevavo asportato le ossa. Deposte in una cassetta, essi le conservarono nel convento e le murarono presso una porta solo al momento di abbandonarlo nel 1810 a seguito delle soppressioni napoleoniche. Fu nel 1865 che, durante dei lavori di restauro in coincidenza col centenario della nascita di Dante, la cassetta venne ritrovata fortunosamente, e le ossa furono ricollocate nel sarcofago dove si trovano tuttora.
Per approfondire:
C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, Mi 1891
G. Beltramini, D. Gasparotto, A. Tura (a cura di), Pietro Bembo e l’invenzione del
Rinascimento, Ve 201