Una società “ciclopica”?

nella foto “Il ciclope” di Odilon Redon. Museo Kröller-Müller di Otterlo
Leggere la storia di Polifemo per scrivere un futuro diverso dal mito
La storia di Polifemo e del suo incontro con Ulisse e i suoi compagni, così com’è raccontata nell’Odissea, impressiona anche il lettore più smaliziato: i tratti bestiali del Ciclope e il suo pasto cruento a base di carne umana turbano anche gli amanti del genere splatter. D’altra parte, la vicenda ha un potenziale lato comico, che è stato sfruttato da Euripide nel dramma satiresco Ciclope. Un diversivo divertente, non privo di spunti di riflessione, allora come ora.
Nella versione euripidea, Polifemo abita ai piedi dell’Etna, in Sicilia: l’isola è parte del mondo greco, almeno per lingua e cultura, ma qui i Ciclopi vivono ognuno per conto proprio, senza che nessuno sia tenuto ad obbedire ad altri. Manca una forma di governo, mancano delle autorità, ognuno è autonomo. I Ciclopi sono figli del dio del mare, Poseidone, ma Polifemo non si sente in dovere di onore gli dei né i valori tradizionali, di cui essi sono considerati i garanti: l’unico dio che Polifemo riconosce è la propria pancia, e la soddisfazione dei propri bisogni. Non è rozzo come lo tratteggia Omero, non è più il pastore primitivo che vive in mezzo ai suoi animali: del suo gregge si prendono cura altri (i satiri), mentre lui si dedica alla caccia, che pratica come uno svago più che come una necessità per la propria sussistenza.
Polifemo si crede furbo, ma col suo unico occhio in mezzo alla fronte non vede la profondità delle cose e non mette in prospettiva le informazioni
Come nell’Odissea, anche nel dramma euripideo Polifemo si considera furbo: Ulisse si presenta al suo cospetto con buone intenzioni, come un supplice che chiede accoglienza, e lui gli concede dei doni ospitali piuttosto singolari. Il personaggio omerico concedeva al suo ospite il singolare privilegio di essere mangiato per ultimo, dopo tutti i suoi compagni. Sulla scena teatrale, invece, gli promette del fuoco e qualcosa con cui vestirlo: un abito pesante da portare, la pentola che sarà messa sul fuoco e in cui sarà cotto. Crede di fare il furbo, ma col suo unico occhio in mezzo alla fronte non vede la profondità delle cose e non mette in prospettiva le informazioni. Non si accorge che Ulisse lo sta ingannando, finendo per essere accecato, e non collega l’arrivo dello straniero che torna dalla guerra di Troia con la profezia che gli aveva predetto la rovina a causa di Ulisse.
Un mito, una bella favola. Forse anche una metafora, in cui il Ciclope impersona una società che rifiuta o reinterpreta in modo personale ed autoreferenziale non solo la religione ma anche i valori della propria tradizione. Una società che si crede evoluta e raffinata, ma che si rivela essenzialmente incivile, individualista ed egocentrica. C’è da riderne, fintanto che la rovina non si compie. E poi? Polifemo cerca invano di colpire la nave di Ulisse e gli prospetta un viaggio ancora lungo, ma Ulisse se ne va e prima o poi arriverà a casa. Lasciando per sempre il Ciclope nella sua cecità.
Due occhi ben aperti sul mondo consentono di cogliere giuste profondità e distanze, senza appiattire tutto nell’indifferenza
Un finale alternativo è possibile? La cornice del mito lo impedisce, ma fuori di metafora la conclusione può e deve essere un’altra, perché la complessità del reale può rivelarsi una risorsa e aprire prospettive imprevedibili, trasformando lo scontro in un incontro e confronto. Due occhi ben aperti sul mondo consentono di cogliere giuste profondità e distanze, senza appiattire tutto nell’indifferenza. Perché rimpiangere gli errori commessi per avventatezza e cercare vane vendette, quando una prudente discrezione può evitare danni a sé e agli altri?