Sicurezza alimentare, l’Italia al primo posto in Europa
Ogni anno l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) pubblica un rapporto sulla presenza di pesticidi rilevati sugli alimenti venduti in Europa. Secondo gli ultimi dati diffusi ad aprile emerge che il cibo Made in Italy è molto più sicuro rispetto agli alimenti stranieri
Nel 2018 le Nazioni Unite hanno deciso di istituire, a partire dall’anno successivo, la prima Giornata internazionale della sicurezza alimentare. Un tema che interessa tutti i paesi del mondo e che per tutti si celebra il 7 giugno. Lo scopo era ed è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere misure volte a prevenire e gestire i rischi trasmessi dagli alimenti, contribuire alla sicurezza alimentare, alla salute umana, alla prosperità economica, all’accesso ai mercati, al turismo e allo sviluppo sostenibile. Il problema, dunque, è serio per diversi aspetti e il primo riguarda le malattie a trasmissione alimentare che ogni anno colpiscono circa 600 milioni di persone, con grave rischio soprattutto dei bambini. La sicurezza alimentare, dunque, è cruciale per la salute globale, ma anche per far fronte ai cambiamenti climatici e dare vita a sistemi alimentari sostenibili a livello mondiale.
Le malattie a trasmissione alimentare ogni anno colpiscono circa 600 milioni di persone, a rischio soprattutto i bambini
Ogni anno l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) pubblica un rapporto sulla presenza di pesticidi rilevati sugli alimenti venduti in Europa. Secondo gli ultimi dati diffusi ad aprile emerge che il cibo Made in Italy è molto più sicuro rispetto agli alimenti stranieri che arrivano dall’Unione Europea e di quelli provenienti da Paesi extracomunitari. In particolare, i prodotti agroalimentari extracomunitari hanno residui chimici irregolari pari al 5,6% rispetto alla media Ue dell’1,3% e ad appena lo 0,9% dell’Italia. EFSA ha analizzato capillarmente 96.302 campioni di alimenti in vendita nell’Unione Europea fornendo uno spaccato della presenza dei residui di pesticidi su frutta, verdura, cereali, latte e vino prodotti all’interno dei Paesi dell’Unione o provenienti dall’estero. Sulla base dei dati raccolti e con quelli resi disponibili dal Ministero della Salute, sul “Controllo ufficiale sui residui dei prodotti fitosanitari degli alimenti”, Coldiretti alcuni mesi fa ha stilato una black list dei cibi più contaminati provenienti dall’estero. Con un campione sui cinque (20%) sono risultati irregolari per la presenza di residui chimici i peperoncini piccanti provenienti da Repubblica Dominicana, le bacche di Goji provenienti dalla Cina ed il riso dal Pakistan. Tra i prodotti più contaminati ci sono anche i melograni dalla Turchia con quasi un campione irregolare su dieci (9,1%), il tè dalla Cina, l’okra (o gombo) dalle sembianze di una piccola zucchina importata dall’India, il dragon fruit proveniente dall’Indonesia dall’aspetto particolarmente decorativo, i fagioli secchi provenienti dal Brasile ed i peperoni dolci e le olive da tavola provenienti dall’Egitto.
Si tratta di prodotti arrivati in Italia con elevati livelli di irregolarità perché contaminati dalla presenza di insetticidi a conferma delle preoccupazioni espresse recentemente dalla Corte dei Conti europea. E’ evidente quindi l’importanza di consumare prodotti Made in Italy per il loro primato nella sicurezza alimentare a livello internazionale ed europeo. A preoccupare è la presenza sul territorio nazionale di alimenti di importazione con elevati livelli di residui e il consumo da parte dei cittadini che devono essere consapevoli delle loro scelte alimentari.
Un aiuto ai consumatori viene dall’obbligo di indicare il Paese di origine in etichetta, in vigore ormai per la maggioranza degli alimenti in vendita, dalla frutta alla verdura fresca, dalla pasta al riso, dalle conserve di pomodoro ai prodotti lattiero caseari, dal miele alle uova, dalla carne bovina a quella di pollo fino ai salumi per i quali è stato da poco pubblicato il decreto. E’ necessario però che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri a tutela della sicurezza dei consumatori e che dietro gli alimenti, italiani e stranieri in vendita sugli scaffali, ci sia la garanzia di un percorso di qualità che riguarda l’ambiente, la salute e il lavoro, con una giusta distribuzione del valore.
I prodotti agroalimentari extracomunitari hanno residui chimici irregolari pari al 5,6% rispetto alla media Ue dell’1,3% e ad appena lo 0,9% dell’Italia
L’allarme globale provocato dal Coronavirus ha fatto emergere una maggior consapevolezza sul valore strategico della filiera del cibo e delle necessarie garanzie di qualità e sicurezza. Nell’anno della pandemia infatti, secondo Coldiretti, si é verificato un aumento del 26% della spesa fatta direttamente dal contadino e un vero e proprio boom è stato riscontrato nel biologico, settore che ha toccato i 3,3 miliardi di euro nei consumi. L’Italia è al primo posto in Europa nella classifica delle aziende agricole impegnate nel bio, con circa 80 mila attività già convertite a questo tipo di disciplinare. Ma l’agricoltura italiana è prima in Europa anche perché è la più green e può contare sulla leadership indiscussa della qualità alimentare grazie a 313 specialità Dop/Igp/Stg, riconosciute a livello comunitario, 415 vini Doc/Docg e 5.155 prodotti riconosciuti come tradizionali regionali.
Consumare produzioni locali è un modo per mangiare sano, per aiutare l’economia del territorio e per ridurre l’inquinamento ambientale perché i cibi non devono percorrere lunghe distanze con le emissioni in atmosfera dovute alla combustione di benzina e gasolio. È stato calcolato, infatti, che un chilo di ciliegie dal Cile per giungere sulle tavole italiane deve percorrere quasi 12mila chilometri, comportando un consumo di 6,9 chili di petrolio e l’emissione di 21,6 chili di anidride carbonica, stessa cosa per un chilo di mirtilli dall’Argentina, mentre l’anguria brasiliana, che di chilometri ne deve percorrere nove mila, brucia circa 5,3 chili di petrolio e libera 16,5 chili di anidride carbonica. Qualche esempio dunque può bastare per renderci conto che la lotta al cambiamento climatico si può fare anche con il carrello della spesa: acquistare prodotti locali significa acquistare prodotti di qualità, ridurre l’inquinamento che proviene dai trasporti e anche quello degli imballaggi. Senza contare che rifornirsi di prodotti freschi significa avere più tempo per consumarli e ridurre lo spreco alimentare.