La rivincita dei vini dimenticati

Viaggio alla scoperta di antiche varietà che sono resistite al trascorrere del tempo e possono diventare la risposta al cambiamento climatico nel futuro
Luigino annota scrupolosamente ogni dettaglio sul suo taccuino, Aldo, invece, fa domande e conduce l’incontro che di settimana in settimana concorda con un produttore vitivinicolo. L’appuntamento di solito si tiene di giovedì e non importa quanti chilometri dividano Luigino e Aldo dal viticoltore, anzi più strada c’è – forse – meglio è. Perché l’oggetto di queste peregrinazioni, delle domande, dei dati minuziosamente annotati sul taccuino riguarda proprio la distanza o meglio l’isolamento, perché Aldo e Luigino cercano antiche varietà di vitigni dimenticati dal tempo. Vecchie coltivazioni marginalizzate dalle mode e dalle tendenze, di cui neanche l’enologia è scevra, vigne delle quali non si conosce neanche più il nome o forse non si è mai saputo, ma che possono rappresentare opportunità altre rispetto all’omologazione che in questi anni sta conoscendo anche il mondo del vino.

Luigino Bertolazzi e Aldo Lorenzoni al Montagnana Wine Festival dello scorso luglio
Quindi è una ricerca di ciò che è rimasto indietro oppure è un modo per guardare avanti? – chiedo ai due nell’intervista che mi ha portato a scrivere queste righe e a preparare la presentazione delle loro prime scoperte durante il Montagnana Wine Festival dello scorso luglio – Dove si posiziona l’oggetto della vostra indagine?
“E’ un modo per conoscere quante cose ci lasciamo alle spalle, ma è anche un modo per vedere se esista l’opportunità di percorrere altre strade – risponde Aldo, che di cognome fa Lorenzoni e per 22 anni è stato il direttore del Consorzio Tutela Vini Soave – non sappiamo esattamente, non c’è una priorità tra le due cose”.
“Ogni giovedì ci mettiamo in macchina per andare a conoscere persone, storie, vite e viti di diversi territori”
“Tuttavia è diventato un appuntamento fisso nelle nostre settimane di pensionati – continua Luigino, che invece di cognome fa Bertolazzi ed è stato l’enologo del Consorzio Tutela Vini Soave – un modo per mettere a frutto le nostre conoscenze di tecnici e l’esperienza che, una vita condotta in questo campo, ci è rimasta in tasca. Fatto sta che ogni giovedì ci mettiamo in macchina, Aldo mi dà la destinazione e arriviamo a conoscere persone, storie, vite e viti che il tempo ha lasciato indietro e per il quale questa dimenticanza non è detto sia del tutto un male”.
Soprattutto quando gli incontri danno luogo ad autentiche scoperte come quella avvenuta in Lessinia, a quasi 900 metri di altitudine, nella più alta zona vinicola veneta, con l’individuazione di tre antichissimi vitigni, uno addirittura medievale, che si ritenevano definitivamente estinti e invece sono più vivi che mai. Si chiamano: Saccola o Pavana, Pontedara e Gouais Blanc per i quali è in corso anche un progetto di micro vinificazioni.
“Sono vitigni che si sono adattati a queste altitudini – spiega Bertolazzi – forse spinti a quote elevate da stagioni calde come quelle che stiamo conoscendo ora. Vini salvati dalla loro acidità. Della Pontedara non si conosce praticamente nulla, del Gouais Blanc si sa che probabilmente è il progenitore dello Chardonnay ed è questa la cosa interessante, ossia che sono totalmente da scoprire e che probabilmente queste varietà hanno nel loro DNA la capacità di resistere al cambiamento climatico che sta minacciando la vitivinicoltura mondiale, e quindi si candidano ad essere i vini del futuro”.
In Lessinia, a quasi 900 metri di altitudine, sono stati individuati tre antichissimi vitigni: Saccola, Pontedara e Gouais Blanc
Di questo ne è sicuro Attilio Scienza, uno dei più autorevoli enologi al mondo, per il quale i vitigni adattati naturalmente forniscono all’Italia una sorta di vantaggio, rispetto a paesi concorrenti come Francia e Spagna, nella corsa della produzione enologia del domani. Perché noi ne abbiamo di più.
Intanto le analisi sui campioni che vengono raccolti continuano, come pure le esperienze di vinificazione. Durante l’intervista e al Montagnana Wine Festival qualche tappo è saltato lasciando intendere tutta la verve sperimentale che governa questo progetto.
“Non stiamo facendo dei buoni vini – ride, Aldo Lorenzoni – ma stiamo facendo delle novità. E’ un bere disimpegnato la cui ricerca va verso esperienze nuove. In alcuni casi potremmo già essere vicini alla forma definitiva, nel senso che forse abbiamo già centrato con la vinificazione il modo migliore di sfruttare il potenziale di queste vecchie varietà, in altri siamo decisamente lontani. Ma su tutto regna la curiosità per un “bere diverso” che potrebbe arrivare proprio da una delle tante realtà che abbiamo visitato. Da una vecchia storia raccontata sul filo della memoria di vecchi contadini, lontani anni luce dalle grandi maison dell’enologia mondiale, dalle pietre sgarrupate di terroir anonimi o dalla semplice indifferenza di chi il vino ha continuato a farselo per se, potrebbe arrivare il vino di domani. Del resto anche con il Durello è successa più o meno la stessa cosa, da una cultivar quasi dimenticata è uscito uno dei vini immagine del Veneto e non solo”.
Traguardi, dunque, non ce ne sono e gli scopi riguardano tanto l’enologia come la sociologia, perché uno degli scopi dei due professionisti è anche quello di andare a conoscere persone, farsi bevitori di storie, oltre che di vino, e documentare ogni cosa, ogni piccolo dettaglio e cercare di dare un’identità certa a quello che purtroppo il tempo ha cercato di cancellare.
“Potrebbe anche uscirne un libro – conclude Luigino Bertolazzi – una carta geografica o un portolano che ci possa aiutare a muovere in questo vasto mondo antico di secoli o addirittura di millenni e comprendere come l’uomo abbia sempre saputo trovare una soluzione per non separarsi mai dalla sua amata vigna”.
L’incontro con Santo Boggian e la Vernazzola nel Montagnanese
Il girovagare di Aldo e Luigino è arrivato alle campagne del Montagnanese, terra della Doc Merlara, ma anche terra di memorie contadine e di ostinate scelte nel preservarne il senso e il significato. Tra i custodi di queste va sicuramente annoverato il nome di Santo Boggian, classe 35, barba bianca, parlare profondo, grande senso del tempo e rispetto per il territorio: valori che hanno ispirato la nascita di una nuova cooperativa agricola, “La Rabiosa”, specializzata nelle produzioni biologiche e impegnata anche nella viticoltura con diverse cultivar tra cui spicca il recupero di una vecchia varietà: La Vernazzola.
“Un vino d’altri tempi – spiega Santo, tra una citazione di Goethe e il ricordo di quando l’acqua dei fossi di queste parti poteva essere bevuta con il cappello – un vitigno che probabilmente è arrivato qui nei secoli passati dal Trentino lungo l’asta dell’Adige. Esistono documenti storici, risalenti alla metà dell’Ottocento, che ne certificano la coltivazione nei comuni di Merlara e Casale di Scodosia, dove tuttora ci sono i nostri vigneti, e quindi forse ha superato indenne anche gli attacchi di filossera che proprio in quegli anni stavano falcidiando le altre varietà e preparato i presupposti all’arrivo del “clinto” o all’uva americana, da oltre Atlantico, che tutti ritengono autoctona e invece e qui da solo un centinaio d’anni”.

La cooperativa prende il nome dal libro di Alessandro Tasinato, il Fiume sono io, ambientato nei pressi del fiume Fratta, un tempo denominato la Rabiosa
Un vino il cui successo deve essere stato garantito, appunto, dagli aspetti colturali, ma anche dalla duttilità di impiego: indistintamente come uva da taglio oppure nella produzione di vino dolce, visto che ha una naturale predisposizione alla spumantizzazione: basta un breve appassimento del grappolo per 4 o 6 giorni al sole.
“Un vino – conclude Santo – la cui attualità è ancora evidente e che solo un “progresso scorsoio” – per usare un termine di Toni Mazzetti – fatto di rese per ettaro o di esterofilia a tutti i costi, ha condannato. Noi abbiamo recuperato dei tralci da una delle pochissime “piantà” rimaste in tutta la zona ospitanti vigne di Vernazzola ultracentenarie a piede franco e dopo aver analizzato il genoma abbiamo dato avvio alla produzione. Si presta benissimo a rifermentazioni siano esse in autoclave oppure in bottiglia in versione frizzante e anche spumante. Tuttavia la stiamo producendo in versione ferma, come da tradizione, una “Sur lie”, fermentata sui lieviti, e una versione è in anfora. E’ un progetto che ha elementi del passato, ma che guarda deciso al futuro”.