La festa dell’inverno. San Biagio a Lendinara e i suoi tesori d’arte

Alla bellezza del rito giova senz’altro la bellezza purissima del tempio che lo ospita. Disegnato con linee slanciate ed eleganti, il tempio è dominato dal pronao della facciata, scandita da quattro imponenti colonne e dal frontone con le statue, è un magnifico esempio di stile neoclassico
Appena oltre l’Adige ‒ fiume che più di tutti conferisce un carattere al nostro territorio e che per questo viene naturale considerare punto di rifermento nonché “naturale confine” ‒ si affaccia la splendida cittadina polesana di Lendinara. Il nome, dal suono misterioso, riconducibile forse alla lingua celtica, è apparso nei documenti per la prima volta in età alto-medievale (870 d.C.) e più volte riaffiorato nel corso dei secoli, a designare quell’“illustre Castello, arricchito di molte fabbriche e torri, colta popolazione” del Mille, come lo ricorda il celebre storiografo Ludovico Antonio Muratori. Dobbiamo quindi immaginare la città medievale – apparentabile alle altre città murate della Bassa padovana, come Este, Montagnana e Monselice – come un vivacissimo borgo, racchiuso tra il corso dell’Adige e l’Adigetto, naviglio che scorre su quello che un tempo era il letto principale del grande fiume. Extra moenia, fuori dunque dalla cinta fortificata, trovavano luogo la pieve di Santa Sofia e il convento di San Biagio, due edifici di culto che insieme al Santuario della Beata Vergine del Pilastrello tutt’oggi spiccano nel panorama artistico dello spazio urbano. Si tratta di tre importanti luoghi di riferimento religioso e civile per la comunità. Se Santa Sofia è infatti il duomo, centro di potere ecclesiastico, le altre due chiese sono legate a grandi feste che segnano precisi momenti del corso dell’anno: la fine dell’estate (8 settembre) con la Fiera dedicata alla Vergine del Pilastrello e il cuore dell’inverno (3 febbraio) con la festa di San Biagio. Quest’ultima ricorrenza è celebrata con una solenne cerimonia che vede la tradizionale benedizione della gola e delle arance, anticipata da un triduo di preparazione e, il giorno prima, dalla festa della Presentazione, con la sua suggestiva liturgia delle luci, nota come la Candelora.

Il Teatro Ballarin sorge di fronte alla chiesa di San Biagio, fino agli inizi dell’Ottocento era il “granarazzo” usato, sotto la dominazione Estense, per depositare biade e vettovaglie
Alla bellezza del rito giova senz’altro la bellezza purissima del tempio che lo ospita. Disegnato con linee slanciate ed eleganti, il tempio di San Biagio, dominato dal pronao della facciata, scandita da quattro imponenti colonne e dal frontone con le statue, è un magnifico esempio di stile neoclassico. La chiesa – un vero e proprio scrigno d’arte – si affaccia sull’Adigetto, di fronte al Teatro Ballarin – il vecchio “granarazzo” usato, sotto la dominazione Estense, per depositare biade e vettovaglie e trasformato in teatro solo a inizio Ottocento – e la piazzetta antistante, l’antico scalo portuale, caratterizzato ancora dalla gradinata, dove un tempo giungevano dal Basso Polesine le barche cariche di verdura. Le notizie più antiche relative all’edificio risalgono al Duecento, quando la chiesa era già parrocchia ed era annessa a un convento affidato fino agli inizi del Quattrocento agli Umiliati, cui seguirono i Gerolamini Fiesolani, che nei primi decenni del XVI secolo trasformarono la piccola chiesa delle origini in una struttura più ampia ed ariosa, consacrata nel 1531. Con la soppressione dei Gerolamini (1688) l’edificio, divenuto di proprietà della Repubblica di Venezia, passò prima, nel 1669, ai Padri Minori Osservanti di San Francesco di Padova e più tardi, esattamente un secolo dopo, nel 1769, ai sacerdoti secolari, sotto il giuspatronato della nobile famiglia Minio. Fu allora che, constatata la grave situazione di degrado della fabbrica, si decise a inizio Ottocento di realizzarne il restauro, incaricando del progetto Giacomo Baccari. L’architetto, nato a Lendinara nel 1756, faceva parte di una famiglia di sacerdoti-architetti: come i fratelli Francesco e Gaetano era anch’egli uomo del clero, e nondimeno finissimo studioso delle armonie palladiane. A lui si devono i progetti per la chiesa parrocchiale di San Barnaba a Saguedo (1789-1794), il disegno della navata e delle cappelle laterali della Cattedrale dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo (inizio Ottocento) ad Adria e, nella cittadina, l’ampliamento del Santuario del Pilastrello (1794-1800).
I lavori a San Biagio ebbero inizio nel 1803 e si protrassero fino al 1813, per essere poi riavviati nel 1829 con la collaborazione di Giuseppe Jappelli, fondamentale esponente del Neoclassicismo in Italia, che a Lendinara lasciò anche la singolare traccia del parco romantico di palazzo Dolfin Marchiori, punteggiato da grotte decorate, statue, torrette neogotiche, sentieri sinuosi e quant’altro di vago ed esotico, secondo uno stile potentemente evocativo. Una eco di suggestiva monumentalità è certo presente nell’intera fabbrica di San Biagio, che riscrive in termini “depurati” un’importante pagina del classicismo rinascimentale, offrendo una nuova interpretazione dei templi palladiani e, in particolare del Redentore di Venezia. Non delude infatti il suo luminoso interno, diviso in tre navate e scandito dal ritmo delle candide e imponenti colonne. Notevole è anche il patrimonio artistico conservato fra le sue pareti, come la suggestiva pala con la Madonna della Cintura (1690 ca.) di Antonio Zanchi, del gruppo dei “tenebrosi”, noto per la sua capacità di fondere il vivo cromatismo della tradizione veneta con i contrappunti chiaroscurali e il naturalismo di ascendenza neo-caravaggesca; altre opere interessanti sono la pala tardo-cinquecentesca con i Santi Nicola, Francesco d’Assisi, Antonio abate e Andrea apostolo di Andrea Vicentino, campione del tardo-manierismo veneto e ancora, più di tutti, la meravigliosa Visitazione, grande capolavoro datato 1525 e firmato “Sebastianus”.

Il luminoso interno della chiesa di San Biagio, diviso in tre navate e scandito dal ritmo delle candide e imponenti colonne
Nel corso degli anni quest’opera è stata attribuita a numerose mani; in origine si era pensato al grande Sebastiano del Piombo, pittore veneziano trasferito a Roma e diventato amico di Michelangelo. Negli ultimi tempi ha preso piede l’attribuzione proposta da Vittorio Sgarbi, che riconduce la pala a Dosso Dossi, spettacolare pittore attivo alla corte degli Estensi di Ferrara nella prima metà del Cinquecento. In realtà già negli anni trenta del Novecento, Giuseppe Fiocco aveva ricondotto l’opera ad un pittore lendinarese, anche se attivo principalmente a Ferrara e spesso in collaborazione con Dosso: si tratta di Sebastiano Filippi il Vecchio, fondatore di una dinastia di pittori. Il figlio Camillo fu infatti uno dei protagonisti del Cinquecento ferrarese ed ebbe anch’egli due figli artisti, Cesare, ma soprattutto Sebastiano, più noto come il Bastianino (per distinguerlo dall’omonimo nonno), che fu allievo diretto di Michelangelo a Roma, prima di tornare a Ferrara negli anni cinquanta del secolo, dove fu per più di vent’anni pittore di corte degli Este. A completare la decorazione della chiesa due possenti statue settecentesche, realizzate in legno massiccio raffiguranti san Gerolamo e san Biagio. Proprio questa statua, raffigurante il patrono della chiesa, è protagonista della festa patronale che si svolge il 3 febbraio e fino a pochi anni fa veniva rimossa dalla sua sede, una nicchia posta nel presbiterio a due metri circa d’altezza, per essere portata in solenne processione per le vie della città, in uno dei momenti “cruciali” dell’anno, formando una perfetta simbiosi fra arte e tradizione.