Nella Repubblica di Venezia il capodanno si festeggiava il 1° marzo

Ufficialmente, come il resto d’Europa aveva adottato il calendario Giuliano e poi quello Gregoriano, ma fino alla sua caduta nel 1797 rimase affezionata a questa ricorrenza, per questo motivo le date dei documenti venivano affiancate dalla dicitura “more veneto”, cioè “secondo l’uso veneto”. Il ricordo di quel tempo sopravvive ancor oggi nel “Bati Marso”
Nel calendario del Veneto Veneziano, ossia quello della Serenissima Repubblica, l’anno nuovo iniziava il primo giorno di marzo. Per chi non era al corrente, la notizia potrebbe apparire inverosimile visto che capodanno che si festeggia il 1° gennaio, risale all’antica Roma al tempo di Giulio Cesare. Nel 46 a.C., infatti, l’allora imperatore e console romano introdusse il calendario giuliano e il 1° gennaio diventò così il primo giorno dell’anno, poi confermato anche dal calendario gregoriano alla data della sua adozione nel 1582. Anche Venezia era aggiornata sull’agenda solare ufficiale introdotta da papa Gregorio XIII, da cui deriva il nome, rimase tuttavia affezionata al suo capodanno fino alla caduta della Repubblica, nel 1797. Per questo motivo le date dei documenti venivano affiancate dalla dicitura “more veneto” (cioè “secondo l’uso veneto”). Con i mesi di gennaio e febbraio “more veneto” si indicavano dunque i mesi dell’anno successivo gregoriano (gennaio 1601 “more veneto” era il gennaio 1602 gregoriano). Venezia, dunque, per tutta la sua lunga storia, continuò a festeggiare il capodanno secondo il proprio capodanno.
Il capodanno che si festeggia il 1° gennaio, risale all’antica Roma al tempo di Giulio Cesare

Marzo prende il nome dal dio Marte, che originalmente era il dio della vegetazione, ma siccome a Marzo, con il risveglio della natura, riprendevano le guerre e i guerrieri venivano radunati nel campo di Marte, da cui il toponimo Campo Marzo esistente anche a Vicenza e a Lendinara, Marte, da buon ecologista, è diventato dio della Guerra.
La testimonianza di questa antica consuetudine rimane ancor oggi in rito, purtroppo non conservato in tutto il Veneto, ma vivo in alcune aree del Trentino e del Friuli, ossia: il Bati Marzo, una sorta di invocazione alla bella stagione attraverso lo strepito rituale, ottenuto picchiando e percuotendo ogni oggetto che potesse emettere rumore: bidoni, lamiere, pignatte, ritmate da filastrocche sul mese di Marzo come: “Marzo – Marzo sìa……” da parte dei giovani di ogni villaggio. Evidentemente un modo per spaventare e scacciare il più lontano possibile l’inverno, retaggio dell’anno precedente. Del resto anche all’osservatore più superficiale appare evidente che è la primavera a designare la rinascita della vita, una rinascita che inevitabilmente però deve attendere una morte: quella appunto della stagione fredda, portatrice di tante sofferenze soprattutto alle classi meno abbienti dei secoli passati. Già i Sumeri, cinque mila anni fa, pregavano Tammuz, il dio che moriva per dare vita, in un rituale che prevedeva suoni e rumori. Questa tradizione ha avuto profonde radici nel tempo e probabilmente, come tante che segnavano i passaggi delle stagioni, risale addirittura alla preistoria confondendosi con il Carnevale. A Roma antica, come a Venezia, nel giorno prima del plenilunio dopo il primo di Marzo, iniziava l’anno nuovo, e un uomo vestito di pelli chiamato Mamurio Vetrurio (il vecchio Marte: il Marzo dell’anno precedente), era cacciato fuori dalla città a bastonate. E’ da puntualizzare che Marzo prende il nome dal dio Marte, che originalmente era il dio della vegetazione, ma siccome a Marzo, con il risveglio della natura, riprendevano le guerre e i guerrieri venivano radunati nel campo di Marte, da cui il toponimo Campo Marzo esistente anche a Vicenza e a Lendinara, Marte, da buon ecologista, è diventato dio della Guerra. Strano il destino degli dei!
I Sumeri pregavano il dio che moriva per dare vita, Tammuz, con un rituale che prevedeva suoni e rumori
Anche il Bati Marso evidentemente discende da quella cultura ancestrale legata al risveglio della natura, trovando nomi diversi in ragione delle diverse latitudini: “Osade de Marso”, “Ciamare Marso”, “Batar Marso”, “Brusa Marso”, “Kalendimarso”, solo per citarne alcune. Dopo il lungo e buio Inverno, dunque, si richiamava la natura al risveglio con giovani in corteo che, partendo dalle contrade, raggiungevano all’imbrunire il paese esibendosi in: schiamazzi, battiti metallici, il gracchiare delle “racole”, scherzi e cantilene, accompagnati, a volte, dagli animali della corte che avevano condiviso con i padroni questo duro periodo. Spesso si finiva con canti e balli davanti al fuoco, bruciando l’Inverno, rappresentato da un fantoccio di paglia.
Si può supporre che in seguito al risveglio della natura, si risvegliasse anche nei giovani la voglia di “Trovàr morosa”, con grida in burlesco di proposte matrimoniali, aiutati da suoni e percussioni con oggetti metallici sotto la casa delle giovani da marito. Sempre la sera del primo di Marzo, sembra che gli “spasimanti” lasciassero un grosso sasso vicino all’uscio della casa della prescelta. Se il sasso veniva ritratto era segno che la ragazza accettava di parlare, sempre sull’uscio, con questo ragazzo. Anche questo simbolicamente poteva rappresentare il preludio di un’unione che avrebbe portato a nuova vita. Un altro aspetto che probabilmente sopravvive da quel lontano e poco chiaro passato sono i “botti” che rimbombano nella notte di di San Silvestro. Questi, altro non sarebbero che le forme più moderne del fare l’antico “baccano”, o meglio – da baccanale – la forma più energica e vitalistica di caos. Non semplicemente un rumore forte, ma il suono della festa travolgente, partecipata, un suono umano, umanissimo, un’alta gazzarra che odora di sudore fresco, vino schietto e di quei fiori che profumano le sere di primavera, pervasa di eccitazione e desiderio d’incontro.
In alcune parti del Veneto si usa ancora pronunciare questa filastrocca:
Vegnì fora zente, vegnì (venite fuori, venite)
vegnì in strada a far casoto, (venite fuori a far confusione)
a bàtare Marso co coerci, tece e pignate! (venite a batter Marzo con coperchi e pentole)
A la Natura dovemo farghe corajo, sigando e cantando, (alla natura dobbiamo far coraggio, urlando e cantando)
par svejar fora i spiriti de la tera! (per svegliare gli spiriti della terra)
Vegnì fora tuti bei e bruti. (venite fuori tutti, belli e brutti)
Bati, bati Marso che ‘l mato va descalso, (Batti, batti Marzo, che il matto gira scalzo)
femo casoto fin che riva sera (facciamo confusione fino a sera)
e ciamemo co forsa ea Primavera! (che chiamiamo con forza la primavera)
Vegnì fora zente, vegnì fora! (venite fuori, venite fuori!)