Il Panificio Zanarotti di Montagnana compie 100 anni
La storica famiglia di fornai è stata il lievito per lo sviluppo della panificazione nella città murata e oggi lo “schissoto” è il prodotto che più rappresenta il loro attaccamento al territorio, alle tradizioni e alla qualità delle materie prime
La storia assomma alla vita delle persone quella dei luoghi e quando entrambi gli elementi si combinano bene, nel senso che gli uomini riescono ad interpretare correttamente il proprio tempo e le risorse disponibili, nascono altre storie destinate a protrarsi nel tempo e a lasciare un segno profondo. E’ il caso della famiglia Zanarotti che proprio quest’anno ha raggiunto il secolo di storia nella panificazione.
La cultura del pane in questa terra non esisteva, il vero pane del nostro passato era la polenta fatta con quel mais la cui coltura era stata imposta da Venezia
A Montagnana dici Zanarotti ed è come dire pane. Perché è impastata con la farina, il lievito e il duro lavoro la storia di questa famiglia di fornai, iniziata nel 1920 quando Antonio Zanarotti, insieme a tre dei suoi cinque figli, ha aperto il primo forno a Borgo San Marco. Stiamo parlando di un’epoca in cui il pane veniva fatto ancora nelle case, anzi nelle corti perché la povertà era quella “nera” e, come tale, imponeva economie che la gente aveva imparato a sfruttare cucinando in forma collettiva i propri impasti nei forni all’aperto delle case padronali, una volta alla settimana, spesso la domenica mattina, per ridurre il consumo di legna. Insomma al tempo il pane era tutt’altro che quotidiano e di certo le donne non erano abituate ad acquistarlo già pronto dal fornaio. E poi va tenuto conto che la cultura del pane in questa terra non esisteva, il vero pane del nostro passato era la polenta fatta con quel mais la cui coltura era stata imposta da Venezia, come la canapa, e da cui la gente non era più riuscita ad affrancarsi, pagando il dazio anche con la pellagra.
Ma i tempi stavano cambiando e la trasformazione riguardava anche Montagnana. Nelle campagne del circondario, infatti, stava per iniziare la “Battaglia del grano” ossia la determinata volontà dell’Italia di superare il deficit granario e arrivare a quell’autosufficienza nella disponibilità di cerali che fu raggiunta solo nel ‘35. E le stesse sperimentazioni condotte sull’Altipiano di Rieti dall’agronomo e genetista agrario, Nazzareno Strampelli, per individuare quelle varietà di grano per lo sviluppo delle cosiddette “sementi elette”, venivano condotte anche qui dalla Società Grano Padovano del Frassine, nata anch’essa nel 1920. Ma se per Strampelli il coronamento delle proprie ricerche fu il frumento “Rieti”, per la Società Montagnanese il risultato fu ottenuto con grano “Cologna” che insieme alle specie da questo derivate e selezionate offriva farine molto ricercate per la panificazione.
Dal frumento “Cologna”, selezionato dalla Società Grano Padovano del Frassine negli anni ’20, derivò una produzione di farine molto ricercate per la panificazione
Ed è proprio qui che la storia diventa la somma delle opportunità date dai luoghi e dall’intraprendenza degli uomini, perché è esattamente in questo preciso momento che la storia della famiglia Zanorotti inizia a farsi “lievito” di esperienze nella panificazione che nel tempo porteranno ad una vera e propria tradizione tutt’ora viva e vegeta all’interno delle mura. Una tradizione la cui immagine olografica potrebbe essere riassunta dallo “schissoto”, perché quel pane umile e contadino, che veniva cotto sotto “al testo” con la cenere e poche braci, ha accompagnato tutti i cento anni di questa storia, fornendo anche la prova che il sentimento e l’affetto per questa terra è passato da generazione in generazione insieme alla capacità di non staccarsi mai dalle “cose” buone e genuine, anche quando i tempi avrebbero preteso scelte molto più moderniste.
Così il pane è rimasto una questione di famiglia e soprattutto una pratica quotidiana che ha accompagnato ogni discendente dentro alla propria epoca. E dalla povertà rurale degli anni ’20, toccata all’antesignano Antonio, la stagione successiva fu quella dell’emigrazione. A conoscerla fu il figlio Dino che nel ‘30 abbandonò la propria casa per andare a Merano per continuare a fare il fornaio. Il fratello Fausto, invece, aprì uno dei primi generi alimentari mentre il terzogenito Arturo continuò la pratica del padre insieme alla moglie Emma, spostando il forno, nel 1954, da Borgo San Marco al centro della città murata, vicino alle poste.
Non era più la stagione solo dello “schissoto” o della “cioppa” a fianco del pane tradizionale contadino iniziavano a comparire sulle tavole, sempre più ricche grazie al boom economico, le forme ricercate del “cornetto”, della “banana”, della “rizza” o dell’operaia “rosetta”: universalmente eletta, debitamente imbottita di mortadella o salame, a merenda dei tanti muratori che stavano ricostruendo l’Italia del dopoguerra. Ma non mancavano forme come il “montasù” o la “biova” che accompagnavano la nascita del primo pane all’olio o al latte, mandando definitivamente in soffitta lo “strutto” che era stato ingrediente e companatico prezioso dei lievitati fino a quel tempo. Ma non per i Zanarotti, che nel loro “schissoto” continuarono a tenerlo come elemento fondamentale.
Negli anni ’70 l’offerta iniziò ad arricchirsi con le prime pagnotte al kimmel o al sesamo e ad essere impegnate farine di segale o ai cinque cereali
Erano gli anni in cui pure la Bassa Padovana iniziava a deruralizzarsi e la società a cambiare. Le donne si affacciavano al mondo del lavoro non solo come stagionali avventizie, durante i periodi di raccolta in campagna, e le famiglie da patriarcali principiavano a ridursi nei componenti fino agli stretti legami tra marito, moglie e figli. Nelle case si iniziava a fare i conti con il minor tempo e per la dispensa a ricorrere alla spesa. I dolci da rito domestico domenicale diventarono progressivamente prodotti del commercio e la consuetudine divenne quella di andare ad acquistarli in pasticceria. Sugli scaffali del forno Zanarotti, invece, continuavano a comparire le forme e i sapori tradizionali della torta “rosegota” (o sbrisolona in altre regioni), della “margherita”, della “sabiosa” o della frugale “fugassa”, fatta con polenta, mele e uvetta. Ma anche le prime brioches, i primi krapfen e soprattutto la pizza, in quanto il figlio di Arturo, Antonio – detto “Sàta” per la sua spiccata manualità – era stato soldato a Napoli e aveva imparato a produrre la pizza classica in teglia della tradizione partenopea.
In realtà le esperienze extraregionali vissute dai Zanarotti sono state molto importanti per il proseguo dell’epopea famigliare. Infatti anche nel ’70 quanto il negozio, allora gestito da Antonio e dalla moglie Elsa, venne spostato nella sede attuale, sotto ai portici di Piazza Vittorio Emanuele II, nell’arredo e nelle novità dei prodotti della panificazione vennero buone le esperienze dello zio Dino vissute in Tirolo. Oltre a realizzate un locale completamente diverso dalle fornerie tradizionali, scegliendo strutture in legno per creare un’atmosfera calda e ospitale, l’offerta iniziò ad arricchirsi con le prime pagnotte al kimmel o al sesamo e ad essere impegnate farine di segale o ai cinque cereali. Erano gli anni 70!
Lo “Schissoto” da pane povero delle campagne diventa una delle immagini alimentari della città insieme al prosciutto crudo
Tanto per dire la precocità con la quale il forno ha anticipato mode e prodotti accompagnandoli a quelli della più stretta tradizione locale. Ma la storia dei Zanarotti non è sempre stata una cavalcata di successi, la precoce scomparsa di Antonio-“Sàta”, nel 1980, costrinse la moglie Elsa e gli allora giovanissimi figli Roberta, Andrea e Arturo a prendersi in carico un’attività che richiedeva impegno e sacrificio. Non fu facile, ma la prova fu superata con una nuova evoluzione dell’offerta, ma soprattutto recuperando dal passato valori e profumi che le nostre comunità non avevano mai dimenticato.
Fu il mai tramontato “schissoto”, infatti, a rappresentare la chiave di volta di questa nuova stagione e di questa nuova generazione di Zanarotti, che al tradizionale e storico impasto aggiunsero dapprima pancetta e successivamente quel prosciutto crudo che proprio in quegli anni stava diventando la principale immagine alimentare della Città. Il resto è storia moderna, al bancone oggi è rimasto Andrea che insieme ai figli Marco, Carlo e Marta e alla moglie Sabrina taglierà quest’anno il filo del traguardo dei primi 100 anni. Ma non si tratta dell’unico primato storico, perché il 2020 segnerà anche il traguardo dei 20 di attività raggiunto dal fratello Arturo con l’Hosteria.
La cifra che tiene insieme tutto è la capacità di questa famiglia di ispirarsi alla propria storia, l’osteria infatti era l’attività che nonna Emma aveva condotto negli anni ’50, prima di chiuderla a malincuore per seguire il marito nella gestione del forno di famiglia, e che nella nuova stagione è stata declinata, da Arturo, in quell’ospitalità che un tempo veniva fatta in casa, proponendo qualche piatto e il buon vino, ma aggiornata alla migliore enogastronomia contemporanea sotto l’insegnamento di quotati chef, come Simone Camellini già allievo di Enrico Bartolini, capace in carriera di mettere insieme tre stelle Michelin, e “vignaron” come Angiolino Maule che sulla tradizione e la naturalezza della produzione ha costruito il suo successo. Insomma qualità, tradizione e territorio sono i tre assi sui quali poggia la storia della famiglia Zanarotti, una storia locale che è stata capace di intrecciarsi con la grande storia e che come storia non ha mai smesso di guardare al futuro.
.