Monselice, una città di trachite
Molti dei suoi edifici più importanti sono stati costruiti con questo materiale estratto dal Monte della Rocca
Monselice, a prescindere che il suo nome significhi o meno “monte delle cave di selce”, è una città di trachite: non solo il colle (la Rocca), su cui è sorta ed attorno al quale si è sviluppata, è costituito di trachite, ma anche molti dei suoi edifici sono stati realizzati con questo materiale. Alla sua nascita nel tardo VI secolo, come centro fortificato bizantino dotato di una propria fisionomia giuridica, la sua forma è racchiusa da una cinta muraria in pietre sbozzate di trachite, dello spessore di circa m 1,50. Ed anche gli altri edifici, messi in luce, entro questa cerchia, dagli scavi archeologici, e riconducibili alle seguenti epoche longobarda e carolingia, sono realizzate con questo materiale. Durante il medioevo, successivi tratti di mura espandono progressivamente il borgo verso il piano, in direzione sud-ovest fino alla definitiva cinta carrarese del XIV secolo: il materiale utilizzato è, fondamentalmente, sempre la trachite, talvolta alternata a filari di mattoni che garantiscono la necessaria orizzontalità dei corsi. Il Castello, da questo punto di vista, rappresenta un vero palinsesto delle tecniche murarie differenti usate tra XI e XIV secolo, che offre utili indicazioni anche per la datazione di vari altri manufatti sparsi per la città.
Da quell’epoca e fino al ‘900, la trachite è diventata una costante nella pratica edilizia della cittadina: nascosta sotto l’intonaco, non vediamo la pietra che però spesso affiora nei davanzali, negli architravi, nei contorni dei portoni. Durante i secoli successivi al medioevo, tuttavia, questo materiale si contende il primato di materiale più utilizzato col mattone, con cui spesso si sposa e che ha il pregio di una più facile manegevolezza e di una maggiore duttilità nella realizzazione di forometrie più complesse e di fregi e cornici. E talvolta cede il passo ad altre pietre, siano queste di più facile lavorabilità, come le pietre di Vicenza e Nanto, sia che, come la pietra d’Istria, la cui presenza è del resto piuttosto circoscritta, appaia come il materiale preferito dai committenti veneziani, lo testimonia il fatto che a Venezia essa rappresenta in assoluto il materiale lapideo più utilizzato.
Il progetto di Vincenzo Scamozzi per villa Duodo costituisce il precedente per la ripresa dell’utilizzo della trachite in architettura tra ‘500 e ‘600
Tra ‘500 e ‘600, comunque, la trachite conosce a Monselice una nuova fortuna come materiale dotato di forte espressività nell’impaginazione delle facciate. L’input proviene da villa Duodo, progettata da Vincenzo Scamozzi, dove l’intelaiatura architettonica risalta nitidamente, grazie al grigio della pietra sullo sfondo dell’intonaco bianco. I Duodo continuano a prediligere questo materiale nei successivi interventi al loro complesso sulla Rocca, che si prolungano fino al tardo ‘700. E’ impiegata nella seicentesca esedra, nell’ala settecentesca di Andrea Tirali (che, riprendendo lo schema scamozziano, lo declina in modo più articolato, con esiti magniloquenti e teatrali) e infine nella Rotonda e nella “porta dei leoni” sempre settecentesche. La ricaduta di questo prestigioso prototipo è immediata e rapida nella cittadina e lo si nota in vari edifici seicenteschi. Anzitutto in villa Nani, col suo portale in trachite che è strettamente imparentato con la porta “romana” dei Duodo (ma da notare anche la bifora bugnata su via del Santuario); poi palazzo Fezzi, con l’originale pentafora del piano nobile affiancata da due finestre accompagnate da balconi balaustrati ed un portone bugnato esemplato su quello dell’ala scamozziana di villa Duodo. E ancora il lungo prospetto dell’edificio in via Dante, affacciato su Piazza Mazzini, con una serliana centrale e le finestre con contorno bugnato. Anche palazzo Branchini, coi suoi robusti pilastri e le balconate in trachite viene da questo linguaggio, fatto di membrature architettoniche messe a contrasto con le superfici intonacate.
Non troveremo più nei secoli successivi un utilizzo così intenzionale ed espressivo della trachite, che, tuttavia, continua ad essere impiegata isolatamente per contorni di porte e finestre, davanzali, scale, rivestimenti, pilastri. Estremo omaggio al “genius loci” appare il progetto di Mario Botta per la fontana ed il complesso monumentale di San Paolo, nel quale tutte le parti nuove sono in trachite o rivestite di questo materiale (benché non più proveniente dalla Rocca).
Per una sorta di crudele nemesi storica la stessa trachite con cui era stata costruita Monselice divenne la causa della sua distruzione
Non si può dimenticare, da ultimo, che Monselice è una città di trachite anche perché i suoi marciapiedi e le sue piazze sono interamente realizzati con questo materiale. “Selesare” o “selicare” sono i verbi con cui si indicava la selciatura dei percorsi pedonali e sia Padova che Venezia hanno abbondantemente sfruttato a questo scopo il materiale dei colli Euganei. Fino ai primi decenni del ‘900 anche le strade del centro apparivano realizzate utilizzando la trachite: il materiale di scarto delle lavorazioni, di piccola pezzatura e dalle forme irregolari, era infisso con un martello su un letto di sabbia (da cui il nome di martellina). Oggi, in gran parte, quel manto è scomparso sotto le colate di asfalto ed affiora casualmente durante dei
lavori stradali. Continua ad esistere lungo vie e vicoli al piede del monte (con tratti originali dell’Ottocento, ma più spesso rifacimenti moderni), mentre alcune strade del centro ne propongono una pallida imitazione, con la sostituzione della trachite con porfido in ciottoli o cubetti. Qualche considerazione resta da fare sulle cave della Rocca. E’ da esse che viene gran parte del materiale impiegato in città per la realizzazione dei più diversi manufatti. La cartografia storica, i documenti e le incisioni, soprattutto settecenteschi, documentano varie “priare” sui pendii del colle (sono dodici nel 1711 tra attive ed inattive), alcune più vistose (come quella presso San Tommaso), altre molto modeste che, vien da pensare, siano state coltivate per l’autoconsumo. Benchè la gran parte del materiale trachitico utilizzato a Venezia e Padova sia stato estratto dalle cave di Lispida, c’è tuttavia memoria di una serie di grossi carichi destinati alla nuova pavimentazione di piazza San Marco, in partenza nel 1722 dalle cave di Monselice. E’ comunque a partire dalla seconda metà dell’ Ottocento che l’escavazione conosce un rapidissimo balzo in avanti per la progressiva meccanizzazione dei processi estrattivi. Con esiti disastrosi per il patrimonio storico della cittadina. A causa dell’ampliamento progressivo dei fronti di cava cadono (già a partire dal 1820) vari tratti delle antiche mura e rischia di sparire anche il Castello. E’ proprio Vittorio Cini, proprietario della più vorace della cave in funzione ma anche recente proprietario del Castello, che decide infine di interromperne l’attività (attorno al 1930) e verso il 1955 cessa anche l’attività dell’ultima modesta cava, rivolta ai bisogni locali. Per una sorta di crudele nemesi storica la trachite che era stata il materiale per la costruzione di Monselice si è rivelata alla fine causa della distruzione di parte dei suoi beni architettonici.
Questo articolo è stato tratto dal libro
di Massimo Trevisan e Franco Colombara
“Le pietre di Monselice.
La geologia incontra la storia, l’arte, l’architettura”