A marzo ogni mato naséa descalzo

I grandi riprendevano il lavoro nei campi e i bambini i giochi all’aperto, tutti regolarmente scalzi. Eravamo davvero matti?
Osservavo, nelle mattine dei primi di marzo, mio padre vestirsi con camicia a quadri e gilet lasciando appesa al chiodo, sotto scala, la pesante giacca da lavoro. Non metteva ancora il grande fazzoletto giallo-rosso, ripiegato a triangolo e annodato al collo, accessorio estivo asciuga-sudore e anti abbronzatura del collo, dal momento che la brezza mattutina apriva a giornate primaverili asciutte, limpide, invitanti alla vita all’aperto. Prima di partire con la mia biciclettina per la scuola, lo vedevo prendere la strada dei campi, assieme al suo fido bracciante-cugino Ivano, con il badile in spalla per andare a sistemare le “cavezzagne”, raschiando la gramigna attorno agli appezzamenti di frumento, quasi a creare una cornice divisoria tra il prezioso campo di grano e l’erba delle “cavezzagne”. Su quella cornice di nuda terra scorreva l’acqua piovana verso il fosso e, più avanti, cresceva l’erba Camomilla, che veniva pazientemente raccolta, essiccata e conservata per farci fare quelli che, più tardi, l’industria del benessere faranno diventare ”Sogni d’Oro”, mentre noi dovevamo accontentarci di dormire e basta!
Osservavo anche che allontanandosi dalla corte mio padre e Ivano non portavano più le pesanti “sgiàvare” invernali, indossate con le ruvide “pezze da piè”, ma camminavano leggeri tra la “sgòazza”, a “piè dèscalzi”!
Era arrivata la primavera! Già ai primi di marzo arrivava la bella stagione, non aspettava l’Equinozio del 21 del mese! Pedalando lungo la strada che mi portava a scuola pensavo che al ritorno, dopo aver raccolto le viole delle rive dei fossi per mia mamma, mi sarei anch’io liberato dalle scarpe per giocare nella grande corte natia. Liberarsi delle rigide “sgiavare” era un sollievo, ma per il contadino andare scalzi già a marzo non era una pazzia, come dice il vecchio adagio, ma oltre ad avere benessere ai piedi prendeva contatto fisico con la nuda terra che aveva passato lo stress del ghiaccio invernale. Così capiva se era già lavorabile con la zappa o con l’aratro, se era secca o umida, fredda o già intiepidita dal sole per seminare il mais, dura o morbida, bagnata o addirittura “sboldra” (inzuppata d’acqua).
Marzo e aprile erano mesi di rinnovamento fisico e mentale, e la Pasqua, non a caso, portava la Resurrezione. Anche oggi dovrebbe essere così, ma le stagioni e i mesi sono in confusione climatica, e la Pasqua fatta diventare una delle tante feste tra le feste.
La lunga attesa della Pasqua, in corte dove sono nato e ho vissuto in gioventù, era segnata da tappe fisse: i venerdì di magro con polenta e baccalà, che mia nonna riusciva rendere così insipido da assomigliare a una condanna da subire durante la Quaresima, alle “operazioni” che, sempre la nonna, faceva ad inconsapevoli galletti di belle speranze, per farli diventare capponi da sacrificare per il pranzo di Natale, ma anche da regalare al parroco, al dottore, alle figlie sposate, e perché no, pure al “paròn” dei campi. Altra tappa o appuntamento era la “lissia”, il grande bucato, con un gran lavoro di tutta la famiglia, l’azione del Carbonato di Potassio contenuto nella cenere, e le lenzuola svolazzanti mosse dal venticello primaverile.
Ma per fortuna si risvegliava anche la voglia del gioco per noi bambini, e questo tiepido venticello primaverile ci dava lo stimolo per costruirci l’aquilone. L’”aquila” o la “volanda” richiedeva, per la costruzione, precise regole geometriche, materiali leggeri e di nessun costo. La carta velina, possibilmente colorata, era l’unico costo, e bisognava andare fino in cartoleria a prenderla. Te la consegnavano arrotolata e stavi attento a non spiegazzarla, perché altrimenti non volava più bene. Per la colla si mischiava farina bianca e acqua e la si scaldava sulla stufa perché diventasse più appiccicosa. Le “canevère” le si prendeva dal fosso, per la coda anelli con carta di giornale, e per lo spago dovevi farti prestare dal nonno il “gemo” di “gavéta” avanzato per legare i salami pochi mesi prima e da tenere per il prossimo maiale. Non c’era anno senza maiale!
Visti i tentativi mal riusciti di costruzione dell’aquilone, a casa mi hanno mandato a scuola da un esperto, che abitava in fondo ai campi, un luogo dove non ero mai stato. Un pomeriggio, dopo scuola, mi sono preso il necessario e mi son recato da questo giovane che mi ha fatto da Tutor in questa singolare arte, per ritornare trionfante, a piedi scalzi, a far volare questo aquilone nel prato davanti alla corte. Era così bilanciato che è volato tanto in alto che quasi non lo si vedeva più, mentre mio nonno era preoccupato per la “gavetta” che li dovevo rendere. L’aquilone fa sognare i bambini di tutto il mondo che cercano di carpirne il segreto del volo attraverso il legame che dà il tiro dello spago che varia di intensità durante le sue giravolte; non è la stessa cosa osservare il volo degli uccelli, non hai il contatto fisico!
Altri giochi primaverili andavano sempre verso il contatto con la natura, forse come scoperta, però condizionata dalla necessità di auto inventarsi i giochi, costruendoli con le proprie mani utilizzando anche materiale di scarto. Mi riferisco ai pezzi di mattone usati per giocare a “mago” in strada o alle “scaje” di coppo per giocare a “carampàna”. Con il legno si faceva la mazza e il “pìndolo” per giocare a sci-anco, archi e frecce, pistole e fucili con l’elastico, fionde e carrettini di legno. Un gioco primaverile che era una scoperta della natura, e forse un riequilibrio inconsapevole dell’ecosistema era l’andare “a gnari”! Alzi la mano chi della mia generazione ante-plastica non ha mai “curiosato” in qualche nido di merli o di quaglie! Tutto questo ha stimolato la nostra manualità, ci ha dato lezioni di scienze, ha favorito la formazione di anticorpi, ci ha dato la possibilità di fare ginnastica alla palestra della vita.
Ora sono felicemente pluri-nonno, ma non invidio la mancanza di curiosità e di stimoli dei miei nipoti, la giovane età si! Decine e decine di giochi, i più svariati, ricevuti da genitori, da noi nonni, zii, genitori di amici alle miriadi di feste di compleanno, onomastico, comunioni, e chi più ne ha più ne metta, vengono aperti con sufficienza e poco dopo messi nell’angolo della casa, sempre fornitissimo, ad essi riservato. Così non trovano niente di meglio, appena arriva la primavera, di togliersi le scarpe e correre nel prato calciando un vecchio pallone di plastica. E sembrano pazzi di gioia! Forse è a questa pazzia che si riferisce il proverbio?