I “sugoi”? Invitanti prodotti della vendemmia nati come medicina

Originariamente il termine indicava una polenta di acqua e farina da spalmare sulle ulcere provocate dalla peste
Da quel lontano 1596 in cui fu stampato un antico testo dell’illustre medico Leonardo Fioravanti, “che ivi vi trattava dei guai delle pestilenze”, di secoli ne sono passati, ma a leggerlo si scopre che quello che fu poi noto con il termine di sugoi, per in indicare un ghiotto budino di mosto d’uva, in quel tempo significava solo impasto di acqua e farina.
Una sorta di polentina fatta per lenire la pelle dei poveri ammalati che, così sembrerebbe, fu trasformata da prodotto galenico per uso esterno in una prelibatezza per il palato da far propria con tanto di cucchiaio. Semplicemente cambiando l’ingrediente acqua dell’impasto originario con il mosto del vino. Idea rivoluzionaria che anche se, con buona probabilità, non poteva essere curativa per la peste, per altri aspetti della nostra salute invece sì, visto il buon apporto di vitamine C e B e carotenoidi contenuti nel mosto.
La ricetta dei sugoli è nata in Veneto ma si diffuse rapidamente in Emila Romagna, Lomabardia, soprattutto nel mantovano
Liquido ottenuto dalla spremitura dell’uva per fare il vino ma anche il citato budino. Ricordando che oltre alle vitamine esso si presenta ricco di molti utili minerali come: potassio, calcio, magnesio, sodio, ferro, rame e zinco. Insomma una sorta di concentrato di salute in barba ai migliori integratori alimentari di oggi. Quindi non più un medicamento, ma una ricetta che in breve tempo dal Veneto si diffuse in Emila Romagna, Lomabardia, soprattutto nel mantovano e nella Bassa Padana. Forse proprio per colpa di quel medico Bolognese che, tornato nelle sue terre di origine con il suo libro stampato a Venezia, potrebbe aver diffuso la memoria anche di un tipo di sugoi fatto oltre che con l’acqua, con il mosto d’uva. Che in soldoni è il succo che si ottiene dalla pigiatura o pressatura delle uve ma che si può “ricreare” in casa per preparare i sugoli, con il semplice impiego di uva. Come spiega una ormai desueta ricetta padovana che, quasi a continuare il gioco dei ruoli e delle terminologie, anziché sugoi, chiama il nostro originario budino, marmelata rustega; buona anche per i bambini come si potrà leggere.
“Bisogna doparar la parte più fissa del mosto de la uva nera che meglio sarebbe fosse di uva Clinton. Dopo averla passata a setaccio e ben pulita va messa in una pentola e appena la si sente bollire, xontare (aggiungere) subito scorza di limone , farina fiore in ragione della quantità di marmellata rusetga che si vuol ottenere e si procede mescolando continuamente l’impasto che va formadosi . Il tutto cercando come risultato una crema morbida come fosse una polenta. Dopo una ventina di minuti circa la si lascia raffreddare e la si versa su vasetti. Buona per i bimbi a merenda spalmata sul pane o anche su una fettina di polenta di mais”.
“Sugoli” o “polenta rustega”, sono due i termini con il quale la storia ci consegna questo budino al mosto d’uva
Va detto che questa leccornia, credete che tale si può definire, un tempo, quando non esisteva l’industria di trasformazione alimentare e le sue diavolerie conserviere, era possibile prepararla solo nel mese di settembre, dopo la vendemmia. Con uva o con mosto appena fatto, che le “nonne” di casa di città si procacciavano presso le loro conoscenze contadine o se già avevano la fortuna di abitarci, in campagna, direttamente dal raccolto delle vigne dei campi di casa propria.
C’erano comunque fra questa marmellata rustega e i sugoi veri e propri, con i quali con buona probabilità almeno una volta ci si è imbattuti in giovinezza o ai nostri giorni, in qualche prezioso ristorante o trattoria che ha fatto davvero dei sapori del suo territorio un tesoro da interscambiare di stagione in stagione, c’erano, si diceva, una o più differenze negli ingredienti usati. Appunto più rustica e popolare la prima, ancor più ricca e golosa la seconda. Ovvero l’uso di unire alla farina fior, oltre al mosto, dello zucchero, una punta di cannella, tipica espressione di una Serenissima venezianità, qualche profumato chiodo di garofano. Anche quest’ultimo nobile retaggio di una conoscenza empirica seicentesca, che attribuiva a questi boccioli essiccati di Eugenia Caryphylla, ora scientificamete certo, poteri antimicrobici e antiossidanti. Oltre che conferire un gusto orientaleggiante e piacevole al nostro budino di mosto d’uva e farina. Finalmente diventato sugoi nella sua nobiltà. Alla quale i più fortunati ancora aggiungevano pure, una volta raffreddato, una spolverata di farina di cacao di prima scelta o, in alternativa, dello zucchero di canna. Quasi ad anticipare quell’effetto crunch assai di moda su tutti i piatti proposti dai vari masterchef di turno. Che a dirla fra una riga e l’altra più “inventano” più tornano a vecchi ricettari del seicento, e prima ancora.
Oltre che di vitamine sono ricchi di: potassio, calcio, magnesio, sodio, ferro, rame e zinco
Ma questo è un altro dire ed è meglio tornare alla ricchezza della semplicità dei sugoi che talora venivano preparati anche mescolando due farine usando sia quella di fiore che farina di mais da polenta. Come succedeva nel polesano quando, fino agli anni ’60, il territorio era ricco di tantissimi vigneti ed erano molti gli agricoltori che ne possedevano. Così pure le loro coltivazione di grano tenero e di grano duro che induceva, appunto all’uso di mescolare le due farine e non solo per i sugoli ma anche per altre preparazioni, specie per i panificati o i dolci caserecci. Una tradizione storica che permea tutto il Veneto, terra inesauribile di prodotti enogastronomici ogni volta da scoprire e riscoprire.
Come nel caso del mosto che non veniva fatto con macchinari moderni di oggi ma lo si otteneva mettendo le uve in mastelli e le si pigiavano con i piedi quando era di vendemmia, in settembre. Poi il succo veniva posto a fermentare nei tini. Mentre le bucce venivano ripassate nuovamente con l’aggiunta dell’acqua. Ecco che si otteneva la graspia o vinello. I più agiati e i primi aspiranti vigneron italiani che potevano permetterselo economicamente, usavano il torchio. Per concludere precisando, i sugoli si possono fare sia con le uve bianche che nere ma il colore di quello ottenuto dalle uve bianche è decisamente meno invitante del ricco colore viola scuro, intenso e intrigante, che solletica occhi e papille.
Ricetta per i “sugoli” fatti in casa
Per farli in casa, ai nostri giorni, trovata l’uva ideale e lavata, la si sgrana, si setacciano gli acini, si schiacciano i chicchi filtrando il mosto in modo adeguato. Solitamente non viene aggiunto zucchero, data la dolcezza dell’uva. Per fare il mosto potete anche passare il composto in un passa verdure per eliminare bucce e semi. Oppure, se ne avete la possibilità, potete adoperare la centrifuga per la frutta. Raccogliete quindi il succo in una terrina. Mettetelo in una pentola utilizzando un mestolo. Per ognuno di questi dovete addizionare un cucchiaio di farina e mezzo di zucchero, se l’uva è particolarmente aspra. Addolcite secondo il vostro gusto. Prestate attenzione affinché la farina non formi grumi. Fate cuocere, mescolando costantemente per evitare si attacchi al fondo, per venti minuti circa. Travasate in stampi o in un contenitori che possono durare ben qualche giorno in frigorifero, spolverando sopra con zucchero bianco.