L’anguilla: piatto povero diventato ricco anche di memoria

Uno dei pochi piatti che testimonia la ricchezza di pesci dei nostri fiumi e anche il sapore di una cucina d’altri tempi
Sono solo di qualche generazione fa le diffuse testimonianze dello stato di limpidezza dell’acqua dei nostri fiumi, tanto pulita da poter essere bevuta.
I nostri nonni, nati nella prima parte del Novecento, hanno avuto questa fortuna e per loro i corsi d’acqua, i piccoli laghi e persino le paludi costituivano una vera e propria risorsa, anche alimentare. E del resto all’estremità di una lunga pianura costruita con l’apporto detritico dei due fiumi più grandi d’Italia, in una terra dove l’acqua ha sempre costituito un eccesso, almeno fino alla bonifica veneziana di metà XVI secolo, il rapporto con canali, fossi, navigli doveva essere molto stretto anche sotto questo punto di vista. Di sicuro chi abitava nelle loro prossimità non ha mai patito la fame, neanche nei secoli più bui.
Potremmo sicuramente affermare che lasciare libera la pesca nei piccoli specchi d’acqua equivaleva, per i governanti del tempo, concedere una misura equiparabile al welfare state, certo non era l’assistenzialismo, ma dava la possibilità di arrangiarsi e di “sfangarla” soprattutto in concomitanza di carestie e a siccità che compromettevano la disponibilità di altri beni alimentari. Sicché, salvo per alcune norme care alle Serenissima Repubblica, la pesca nei rii di campagna è sempre stata libera, anche per questo non è mai esistita una vera e propria categoria di pescatori, ma rimase una pratica all’abbisogna.
E la disponibilità era varia e abbondante comprendendo: tinche, lucci, pesci gatti, carpe, storioni, celebri quelli dell’Adige e del Po dai quali si ricavava anche il caviale, barbi, cavedani e il famoso “pèssin”, ossia la fritturina mista di “aole” (alborelle), s’gardoe, (scardole) e gamberetti di fiume. Un patrimonio oggi compromesso dall’inquinamento e da una scarsa considerazione culinaria.
Un patrimonio oggi compromesso dall’inquinamento e da una scarsa considerazione culinaria
Ma quando si parla di una cucina “identità del territorio” non si dovrebbe prescindere da questa storia. E quando qualche ristorante si premura di conservarne la memoria, il nostro plauso scatta automatico. E’ il caso della Trattoria alla Baracca, storica osteria i cui battenti sono aperti dal 1950. Ossia da quando nella povertà dell’immediato dopoguerra, proprio dove il fiume Bacchiglione – in strada di Casale a Vicenza – forma un’ansa, esisteva una vera e propria baracca dismessa che la signora Luigia Bertuzzo, insieme ai figli Umberto e Orfeo Merlo, decise di acquistare per adibirla a punto di ristoro. Divenne subito meta delle famiglie vicentine che nel dopolavoro sotto l’ombra dei gelsi trovavano un angolo di relax e di socializzazione.
Umberto e Orfeo si dedicavano alla pesca, in quegli anni ancora florida e ben considerata, per preparare i piatti che sarebbero diventati dei riferimenti fissi nel menù di tutti i giorni: l’anguilla in umido (la bisàta) e la frittura di “pesce popolo” (pèsseto). Oggi in cucina c’è Maria Lidia, moglie di Umberto e dunque nuora della signora Luigia, la struttura è stata rinnovata, ma il menù è rimasto ancora quello delle origini. Gentilmente ci è stato concesso di estrapolarne un piatto per condividere con voi, lettori di Con i piedi per terra, la ricetta dell’anguilla.