Con la perdita del paesaggio si perde anche l’Identità della sua gente
Malgrado il Veneto sia la terra di Palladio e dello Scamozzi l’architettura e l’urbanistica moderna non paiono affatto risentire della loro formidabile lezione. Dagli anni ’50 del Novecento regna una generale schizofrenia edificatoria che ha portato ad un landscape senza armonia e con pochi valori utili al vivere quotidiano
La convenzione europea sul paesaggio definisce quest’ultimo come “una porzione di territorio, così com’è percepita dalla popolazione, il cui carattere deriva dall’ azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni”.
Per paesaggio non deve dunque intendersi il bel panorama o l’ameno scorcio naturale, ma l’insieme dei segni, dei manufatti e delle trasformazioni che l’opera umana ha impresso nel territorio “naturale”. Sicché i valori che esso trasmette non sono puramente estetici, ma toccano l’economia la tecnica, la cultura, l’organizzazione sociale quanto l’arte e l’architettura.
La premessa è tanto più necessaria quando si parli del “paesaggio palladiano”. Il termine deriva dal titolo di un importante testo del geografo Denis Cosgrove e designa ormai l’insieme degli interventi intrapresi sulla Terraferma dalla nobiltà veneziana a partire dalla metà del ‘500, che comportarono massicce operazioni di regolamentazione delle acque e bonifica, di colonizzazione e valorizzazione dei terreni agricoli e di insediamenti produttivi. Ossia la “dominazione della Serenissima delle nostre campagne, che partita certo con una spinta primaria prettamente economica, nel senso che al tempo Venezia doveva compensare la perdita di importanti aree produttive a causa dell’avanzata turca nel Mediterraneo, si pensi che solo verso la metà del 1600 il Veneto raggiunse nuovamente l’autosufficienza alimentare, andò progressivamente connotandosi anche per lo spessore dei contenuti culturali che mobilitò, “in cui convergono i temi forti della visione umanistica occidentale….il tentativo di collegare intellettualmente il microcosmo del vivere quotidiano con l’armonia della grande ‘machina’ del mondo….la creazione di un mondo nuovo, perfetto, armonico…” (Vallerani).
Guido Piovene: “Si avverte frequentemente… una rottura tra le tradizioni, lo sfondo, e la vita di oggi… La civiltà diventa endemica, senza giungere più all’intelligenza e all’amore; gli abitanti assomigliano ad ospiti occasionali, senza storia, su un fondale storico”
La “santa agricoltura”, per usare un’espressione di Alvise Cornaro, strappa la natura dall’arido caos del “vegro” e dall’insana palude per transitarla all’ordine delle colture (alberate, broli, campi di grano e mais, filari di vite e frutteti a quinconce), offrendo “scene” e “spettacoli” che Charles de Brosses ha ancora l’occasione di annotare, transitando nel 1739 da Vicenza a Padova. L’amenità naturale dei siti (le colline euganee e dell’asolano, le acque di fiumi e canali…) è accortamente valorizzata nella costruzione delle ville, dove la razionalità e le necessità economiche legate alla conduzione del fondo (barchesse ed annessi rustici) si legano senza soluzione di continuità all’esibizione del prestigio signorile e alla celebrazione della famiglia che le possiedono. Non a caso gli affreschi interni spesso celebrano le delizie del vivere in villa, come a villa Caldogno, nel vicentino.
Si tratta di un “progetto” elitario, che, l’ha ricordato più volte il compianto storico dell’arte Lionello Puppi, ha come controparte la miseria, le malattie, le carestie patite dai contadini, la cui testimonianza letteraria più alta è nelle commedie del Ruzante, ed il cui sogno di evasione si concretizza nell’immagine “altra” e chimerica del paese di Cuccagna.
Malgrado la caduta della Serenissima ed il venir meno delle varie Magistrature che per secoli avevano sovrinteso al funzionamento di questa economia, si può dire che l’eredità palladiana sopravviva ben dentro il Novecento. Ed esiste una certa continuità ideologica di essa con “l’affezione ruralistica di matrice borghese” dell’Ottocento (Vallerani). Bastano a testimoniarla la creazione di grandiosi parchi da parte dell’aristocrazia imprenditoriale e terriera nel corso di quel secolo: dal Treves di Padova a quello di villa Comello di Galliera Veneta al Rossi di Santorso di Vicenza, dal parco Revedin Bolasco di Castelfranco a quello Centanini di Stanghella.
Ma i più sensibili osservatori cominciano a sottolineare vistose crepe in questo quadro a partire dagli anni 50 del ‘900. Nello stesso momento in cui Giuseppe Mazzotti lancia il suo grido di allarme sullo stato deplorevole di molte ville venete, Guido Piovene, nel suo “Viaggio in Italia” del ’57, attraversando il Veneto nota le costruzioni volgari e le brutture edilizie che deturpano un paesaggio che peraltro altrove (come presso Asolo) continua a mostrare “un massimo di equilibrio e di grazia”. Concludendo: “Si avverte frequentemente… una rottura tra le tradizioni, lo sfondo, e la vita di oggi… La civiltà diventa endemica, senza giungere più all’intelligenza e all’amore; gli abitanti assomigliano ad ospiti occasionali, senza storia, su un fondale storico”.
Città diffusa, agripolitano, rururbano sono termini che, col loro carattere ossimorico, descrivono bene la struttura schizofrenica di questi insediamenti, connotata dalla dispersione edilizia
A partire da quella data, ma con accelerazione progressiva negli ultimi quattro decenni, le esigenze dell’industrializzazione e del riscatto sociale si sono scontrate con la realtà di un territorio caratterizzato storicamente da un policentrismo scarsamente gerarchizzato, causando, soprattutto nell’area centrale tra Treviso Venezia Padova e Vicenza, la proliferazione delle case sparse e dei piccoli insediamenti artigianali.
Città diffusa, agripolitano, rururbano sono termini che, col loro carattere ossimorico, descrivono bene la struttura schizofrenica di questi insediamenti, connotata dalla dispersione edilizia, con cortine quasi ininterrotte di edifici residenziali che si affiancano alle costruzioni commerciali, agli uffici alle fabbriche, attestandosi lungo le principali direttrici di traffico, mentre sul retro si intravedono ancora scampoli di una campagna sempre più marginalizzata ma che pare tornare a dominare non appena si imbocchi qualche strada secondaria.
Se disordine, incoerenza ed un rumore di fondo sono le conseguenze di questo processo sul piano urbanistico e figurativo, quelle sul piano culturale sono l’appiattimento e la incapacità di leggere le forme dei luoghi, la “scarsa attitudine a leggere in esse la stratificazione di processi, significati, valori, cultura. Ogni luogo diventa ‘normale’, privo della sua specificità e unicità, privo della sua storia, privo della sua caratterizzazione”, sicchè si è autorizzati ad interventi anche vistosi, privi di qualsiasi rapporto spaziale o qualitativo con il contesto (Castiglioni).
Non sono mancate nel passato iniziative volte a contenere questa deriva, nate da una sensibilità “ecologica” proveniente dal territorio e volte a preservare paesaggi specifici, caratterizzati da peculiarità geomorfologiche, ambientali, colturali ed edificatorie. Mi riferisco in particolare, per le aree a noi più vicine, alla creazione nel 1989 del Parco dei Colli Euganei, e nel 1997 del Parco del Delta del Po.
Si tratta tuttavia di iniziative che riguardano piccole porzioni del territorio veneto, per di più spesso percepite come burocratizzate o addirittura vessatorie.
Castiglioni: “Ogni luogo diventa ‘normale’, privo della sua specificità e unicità, privo della sua storia, privo della sua caratterizzazione”
Oggi, una sensibilità vieppiù crescente nel pubblico verso le questioni ambientali, assieme ai segni di crisi del “modello veneto” ed alla necessità di prevenire catastrofi naturali inducono a pensare che la ricomposizione del paesaggio non possa passare che attraverso un Piano Paesaggistico regionale, che si faccia carico, con un adeguato apparato normativo e di monitoraggio e verifica degli esiti, di connettere tra loro le problematiche relative alla preservazione dei cicli ecologici fondamentali, ai flussi di materie prime e di energie, all’approvvigionamento ed alla gestione dei rifiuti, alla messa in sicurezza del territorio, alla organizzazione dei trasporti, alla formazione di infrastrutture verdi. Piano che prevederebbe la riaggregazione degli insediamenti residenziali e produttivi; la ricostruzione dei margini urbani con cinture verdi che “ricucissero” campagna e verde cittadino; il potenziamento e la valorizzazione degli enti-parco esistenti, assieme alle riserve naturali ai bacini idrografici ed i fiumi, anche in vista di un turismo sostenibile; la riqualificazione dell’agricoltura (Lironi).
La Regione in questi anni ha avviato diversi Piani Paesaggistici, ma ancora una volta relativi solo a porzioni circoscritte del territorio veneto; ha pure avviato l’iter per la stesura del Piano Paesaggistico Regionale, a tutt’oggi però lettera morta.
La stessa Regione che si è mostrata sollecita nella gestione dell’emergenza appare incapace di un disegno ambizioso ed a lunga scadenza per la ricomposizione e la valorizzazione del suo territorio, al di là della difesa di interessi particolari o dei localismi che ancora paiono caratterizzare la società veneta.
Per approfondire:
L. Puppi: L’ambiente, il paesaggio e il territorio, in “Storia dell’arte italiana, 4, To, 1980
B. Castiglioni, V. Ferrario: Dov’è il paesaggio veneto?, in Ars, 114, 2007 *
F, Vallerani: Paesaggio postpalladiano tra utilitarismo privato ed eticità dei beni comuni, in: ”Le trasformazioni dei paesaggi e il caso veneto” ( a cura di G. Ortalli), Bo, 2010 *
S. Lironi: Paesaggio e consumo del suolo nel Veneto, 2011 *
A.R. Candura, E. Poli: Sviluppo ed evoluzione del paesaggio veneto: per un’efficace geografia economica nel territorio, in Commons/Comune, 14, 2016 *
* disponibili in rete.